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Con la sentenza n. 10806/2020, pubblicata il 5 giugno 2020, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulle conseguenze derivanti dall’introduzione del giudizio di merito a seguito dell’opposizione all’esecuzione nel caso in cui il Giudice assegni alle parti un termine superiore a tre mesi previsto dall’art. 307 c.p.c. e queste ultime procedano nel rispetto del termine assegnato.

IL CASO: Nell’ambito di un giudizio di opposizione all’esecuzione, il Giudice all’esito della fase interinale provvedeva alla parziale sospensione del processo esecutivo ed assegnava alle parti il termine di sei mesi per l’introduzione del giudizio di merito.

Nel costituirsi in quest’ultimo giudizio, introdotto dai creditori procedenti, gli opponenti eccepivano la tardività essendo il giudizio di merito stato instaurato oltre la scadenza del termine trimestrale di cui all’art. 307 c.p.c. L’opposizione veniva rigettata dal Tribunale e la sentenza di primo grado veniva confermata dalla Corte di Appello in sede di gravame.

Pertanto, la vertenza veniva sottoposta dagli esecutati all’esame della Corte di Cassazione i quali insistevano nell’eccezione preliminare di tardività dell’introduzione del giudizio di merito già formulata in primo grado, evidenziando che nonostante il giudice dell’esecuzione avesse assegnato alle parti un termine di sei mesi per introdurre il suddetto giudizio, il termine perentorio da osservare era invece quello di tre mesi stabilito dall’art. 307 c.p.c., comma 3, come modificato dalla legge n. 69 del 2009.

LA DECISIONE: Il motivo del ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione la quale nel rigettarlo ha affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di opposizione all’esecuzione, il termine che, ai sensi dell’art. 616 c.p.c., il giudice dell’esecuzione deve assegnare alle parti, all’esito della fase sommaria, per introdurre il giudizio di merito o riassumerlo davanti all’ufficio giudiziario competente deve essere contenuto entro quelli minimo (un mese) e massimo (tre mesi) stabiliti dall’art. 307 c.p.c., comma 3. Nondimeno, qualora il giudice erroneamente assegni un termine maggiore, non incorre in decadenza la parte che introduca il giudizio oltre lo spirare dei tre mesi, ma entro il termine concretamente assegnatogli. Infatti, la legge che rimette al giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario cui le parti debbano comunque attenersi”.

Secondo gli Ermellini:

1. il termine fissato dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 616 c.p.c. è soggetto alla regola generale posta dall’art. 307 c.p.c., comma 3, valevole in tutti i casi in cui non sia stabilita dalla legge la durata dei termini entro cui alle parti spetta di proseguire o riassumere il giudizio e tale termine deve essere stabilito dal giudice;

2. nel caso in cui il Giudice erroneamente assegni alle parti un termine superiore a quello massimo previsto dalla legge, queste ultime non incorreranno in decadenza per il solo fatto di non aver rispettato il termine legale e quindi introducono il giudizio oltre il termine dei tre mesi ma entro il termine assegnato dal Giudice;

3. nel caso in cui il giudice stabilisce un termine perentorio illegittimo in quanto esorbitante il limite massimo consentito dalla legge, le parti devono sempre fare riferimento al contenuto del provvedimento giudiziario per l’eventuale decadenza.

Allegato:

Cassazione civile sentenza n.10806/2020

 

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