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La Corte di cassazione ribadisce che il giudice che statuisce sull’entità del compenso da riconoscere all’avvocato per più procedimenti esecutivi riuniti, in quanto relativi al medesimo debitore, deve liquidarlo in base alla somma complessiva, separando però il quantum da riconoscere per l’attività istruttoria e di trattazione che ha preceduto la riunione. Non sussiste, invece, l’obbligo del giudice di fissare un compenso in base al disputatum, invece che al decisum, in quanto trattandosi di fase esecutiva già definita con ordinanza di assegnazione esso va parametrato all’entità del credito riconosciuto con l’ordinanza di assegnazione, ma il giudice ha però facoltà – applicando il dovuto scaglione tariffario – di riconoscere i presupposti per la sua maggiorazione.

Con la sentenza 9333/2024 la Corte di cassazione ha perciò respinto il motivo di ricorso che lamentava la mancata perimetrazione del compenso su quanto richiesto, ma accolto il motivo che non aveva tenuto conto delle fasi precedenti a quella esecutiva pura risultante dalla riunione di più procedimenti esecutivi. Viene perciò affermato che in presenza di riunione di più cause, “la liquidazione dei compensi per l’attività svolta prima della riunione deve essere separatamente liquidata per ciascuna causa”, e ciò “in relazione all’attività prestata in ciascuna di esse, mentre, per la fase successiva alla riunione, può essere liquidato un compenso unico sul quale è facoltà del giudice applicare la maggiorazione in presenza dei presupposti previsti dalla tariffa”.

Ciò che fa rilevare la Cassazione è che in assenza di dialettica processuale come accade in quella esecutiva contro il debitore precettato la base del calcolo della liquidazione del compenso non può che essere fissata sull’entità del credito riconosciuto.

Esito privo di soccombenza
Per contro, nel procedimento esecutivo l’onere delle spese, come disciplinato dall’articolo 95 del Codice di procedura civile è improntato – spiega la Corte – al diverso principio della “soggezione” del debitore all’esecuzione, sicché “solo in termini descrittivi” può parlarsi di soggetto che soccombe rispetto all’azione esecutiva esercitata. Infatti, la parte subisce l’azione rimanendo nell’incertezza solo l’integrale soddisfazione dell’altra parte, ma non la fondatezza della posizione sostanziale sottesa. Nonostante l’indiscutibile natura giurisdizionale del processo esecutivo e del provvedimento finale che accoglie la domanda non viene agita una piena ed effettiva “dialettica processuale”, ma solo una posizione di soggezione. Al netto di eccezioni del debitore come l’esercizio del suo diritto alla “mera” conversione del pignoramento, che conferma a contrario l’assenza di una dialettica processuale. Va, invece, riconosciuto il confronto sostanziale tra le parti in caso di giudizi di opposizione che innescano una posizione realmente avversativa alla pretesa azionata in quanto connessi e però distinti giudizi di cognizione.

In conclusione, in assenza di una “compiuta ed effettiva dialettica processuale” (solo in relazione alla quale la liquidazione delle spese può essere affidata a criteri come “decisum” e “disputatum”) il solo criterio per determinare il valore della “controversia”, in relazione alle spese che, ai sensi dell’articolo 95 del Codice di procedura civile “sono a carico di chi ha subito l’esecuzione”, non può che essere quello dell’effettiva entità delle somme precettate.

 

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