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Se la vendita avviene senza incarico scritto, ma con il contributo dell’agente immobiliare

Se l’immobile viene venduto con il contributo dell’agente immobiliare, questi ha diritto al compenso, anche in assenza di incarico preventivo. È quanto è affermato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 7029 del 12 marzo 2021.

Il principio non è nuovo, come la stessa Corte rileva richiamando vari precedenti in proposito. Entriamo nel dettaglio vedendo in primis i fatti di causa e poi i passaggi logico-giuridici seguiti dalla Corte nell’adozione della decisione.

Vendita senza incarico formale, il mediatore cita in giudizio il cliente

Un agente immobiliare agiva in giudizio davanti al giudice di pace per ottenere la condanna al pagamento della provvigione per la mediazione prestata in relazione all’acquisto da parte della convenuta di un immobile.

Il giudice di pace accoglieva la domanda; in secondo grado, invece, il tribunale giungeva a conclusioni opposte e dunque accoglie l’appello, ritenendo che il giudice di primo grado non avesse correttamente valutato le prove.

Il tribunale cioè, pur evidenziando che la parte avesse sottoscritto la proposta di acquisto nella convinzione che la proprietaria avesse affidato all’agenzia l’incarico di mediazione, riteneva che gli elementi di prova acquisiti in giudizio non ne dimostravano, in realtà, l’esistenza.

La sentenza di secondo grado viene impugnata in cassazione dall’agenzia immobiliare con tre motivi.

Mancato accertamento del nesso di causalità tra attività del mediatore e conclusione dell’affare

Quello su cui si concentra la Corte è il secondo, che quindi ritenuto fondato, con assorbimento degli altri due.

Con il secondo motivo il ricorrente contesta la violazione degli artt. 1754 e 1755 c.c. nonché il valore confessorio circa il fatto che la promittente venditrice non avesse attribuito all’agenzia l’incarico per la vendita dell’immobile attribuito ad una missiva, precedente di sette mesi alla proposta d’acquisto, senza avere il dubbio che l’incarico potesse essere stato conferito successivamente.

Senza poi considerare, prosegue il ricorrente, che il diritto del mediatore alla provvigione sorge qualora la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’opera svolta, qualora la parte l’abbia accettata traendone vantaggio, mentre non ha importanza il conferimento preventivo dell’incarico.

Conseguentemente, rileva il ricorrente – il tribunale avrebbe dovuto solo verificare se la stipula dell’atto da parte della convenuta fosse conseguenza dell’avvenuta interposizione dell’agenzia, non avendo rilievo se la venditrice avesse sottoscritto un contratto scritto di mediazione.

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E sul punto, osserva, già in primo grado, il giudice aveva ritenuto “che l’attore aveva offerto la prova di aver procurato l’affare fornendo la dimostrazione dell’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività mediatoria e la conclusione dell’affare.

Per completezza ricordiamo che l’art. 1754 c.c. prevede che:

I. È mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza”.

Mentre l’art. 1755 c.c. prevede che “I. Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.

II. La misura della provvigione e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, di tariffe professionali o di usi, sono determinate dal giudice secondo equità”.

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Il diritto alla provvigione sorge se la conclusione dell’affare è in rapporto causale con l’intermediazione

Il motivo come detto è ritenuto fondato dalla Corte, la quale rileva che il tribunale ha escluso il diritto alla provvigione per l’inesistenza di un incarico, mentre avrebbe dovuto accertare il fatto storico, discusso tra le parti nel corso del giudizio di merito e (qualora accertato) decisivo in direzione di un differente esito della controversia, favorevole al ricorrente, dato dal nesso causale in ipotesi esistente tra l’opera svolta e la conclusione dell’affare (si menzionano in proposito i precedenti di Cass. n. 14014/2017, Cass. n. 9253/2017 e Cass. n. 7472/2017).

Si tratta dell’ipotesi di motivo di ricorso di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (sebbene, osserva la Corte, il ricorrente abbia intitolato il motivo quale denuncia di violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. che invece riguarda la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”).

Ed in effetti, osserva la Corte richiamando una serie di suoi precedenti, il diritto del mediatore alla provvigione sorge “tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice”; e ciò, pur non essendo necessario che tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare sussista “un nesso eziologico diretto ed esclusivo”, mentre è ritenuto “sufficiente che, anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo, la “messa in relazione” delle stesse costituisca l’antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto” (si richiamano Cass. n. 869/2018 e Cass. n. 25851/2014).

Dunque l’intervento del mediatore può anche consistere solo nel ritrovamento e nell’indicazione di uno dei contraenti, indipendentemente da altro suo intervento nelle varie fasi delle trattative che giungono alla firma del negozio, sempre che questa possa legittimamente dirsi “conseguenza prossima o remota della sua opera, tale, cioè, che, senza di essa, il negozio stesso non sarebbe stato concluso, secondo i principi della causalità adeguata” (e qui si richiamano i precedenti di Cass. n. 3438/2002, Cass. n. 9884/2008 e Cass. n. 23438/2004).

D’altronde, si prosegue, “ai fini della configurabilità del rapporto di mediazione, non è necessaria l’esistenza di un preventivo conferimento di incarico per la ricerca di un acquirente o di un venditore, ma è sufficiente che la parte abbia accettato l’attività del mediatore avvantaggiandosene (Cass. n. 11656 del 2018; Cass. n. 25851 del 2014)”.

Quindi, il “rapporto di mediazione, inteso come interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare”, non presuppone necessariamente un preventivo accordo delle parti, ma può rinvenirsi anche in “una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto tacitamente, utilizzandone i risultati ai fini della stipula del contratto”; dunque, qualora l’incarico sia provenuto da una sola delle parti, ma l’altra abbia dato acquiescenza, questa resta del pari vincolata verso il mediatore (e qui si richiama Cass. n. 21737/ 2010).

L’ordinanza prosegue con il rilevare che l’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività svolta dal mediatore è una questione di fatto, come tale rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e quindi sindacabile in sede di legittimità, ai sensi del cit. art. 360 n. 5 c.p.c. solo qualora la decisione impugnata abbia del tutto omesso di esaminare un fatto dedotto in giudizio e decisivo ai fini della soluzione della controversia: come, in effetti, è accaduto nel caso in esame.

Sul rilievo del mancato accertamento del diverso e decisivo fatto dato dal nesso causale tra l’opera prestata e la conclusione dell’affare, il ricorso è quindi accolto e la sentenza, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, al tribunale in differente composizione.

 

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