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Sassari L’immagine più brutta è quella dell’elicottero che riparte vuoto: Andrea è intubato e ha avuto quattro arresti cardiaci, i medici dicono che non può partire perché è instabile, sarebbe troppo pericoloso. Sono le 16,30 del 19 marzo e in quel momento Silvia capisce che cosa si prova nel veder volare via la vita di un figlio e non poter fare nulla per trattenerla. Può solo sperare che il cuore si calmi, che il battito ricominci ad essere regolare e che quell’elicottero possa tornare indietro. Cinque minuti, dieci minuti, mezzora: il contrordine arriva, si può partire. Andrea, 8 mesi, poco dopo le 17 lascia l’ospedale San Francesco di Nuoro a bordo dell’elicottero del 118 diretto a Roma, ospedale Bambin Gesù: è un volo salvavita verso una struttura specializzata, verso un reparto di terapia intensiva pediatrica. In Sardegna questo reparto non esiste e «mio figlio, se l’elicottero non fosse tornato, sarebbe morto quella sera, ucciso dalla meningite».

La corsa in ospedale I ricordi vanno indietro di poche ore. Silvia Ortu, 38 anni, infermiera nel reparto di geriatria all’ospedale San Francesco di Nuoro, è a casa a Bono con i suoi bambini, Giada, 4 anni, e Andrea, 8 mesi. Il piccolino ha la febbre, ma non sembra niente di preoccupante. «Verso le 2 di notte la temperatura sale e compaiono le prime petecchie. Inizio ad allarmarmi. Chiamo in ospedale, la febbre è oltre 40». Silvia e il marito Giuseppe Pinna, 46 anni, agente di polizia penitenziaria nel carcare nuorese di Badu ’e Carros, salgono in auto direzione Nuoro con il bambino. «Alle 7 meno 20 facciamo il triage al San Francesco, nel frattempo la temperatura è scesa». Andrea viene ricoverato, la saturazione è buona, iniziano i primi esami e prelievi. «Alle 8 del mattino mi dicono che l’emoglobina è scesa a 7, più di 10 punti in meno rispetto al valore normale per un bimbo di quell’età – da 17 a 19 –. Viene richiesta un’emotrasfusione che sarà disponibile solo dopo cinque ore, e una consulenza ematologica. Andrea sta soffrendo, io e mio marito ci rendiamo conto che la situazione è molto grave».

Via dall’isola Il cuore e i reni del bimbo rischiano di collassare, ma ancora una diagnosi non c’è. La meningite viene esclusa «perché a livello neurologico non risulta niente», dice Silvia. I medici dicono a lei e al marito che Andrea deve essere portato in sala operatoria per disporne il trasferimento all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Non c’è tempo da perdere, la possibilità di viaggiare con il Falcon dell’Aeronautica militare viene esclusa subito: «Dovremmo andare a Cagliari ed è troppo distante». Si chiama l’elicottero, la partenza è fissata per mezzogiorno. Ma Andrea inizia ad avere arresti cardiaci, viene intubato. Bisogna aspettare. Alle 13.30 fa la trasfusione e si decide di partire subito dopo. «Invece alle 16 i medici ci dicono che non è possibile, non è in condizioni di affrontare il viaggio. Vediamo l’elicottero andare via, mi butterei sopra per trattenerlo. Qella è una immagine incancellabile, sento che il mio bambino mi sta lasciando. Mio figlio sta morendo e io non so perché».

In volo Mezzora sospesi, poi anche Silvia e Giuseppe ricominciano a respirare. «Nell’elicottero salgo io con Andrea, un medico, due infermieri e il pilota. Mio marito torna a casa da Giada. Alle 18.20 gli mando un messaggio: «Siamo atterrati». Un attimo prima di partire, Andrea ha avuto un altro arresto cardiaco. A Roma, Ospedale Bambin Gesù, il piccolo viene preso in cura dall’équipe in contatto da ore con i colleghi di Nuoro. La diagnosi arriva verso le 20: «È meningite, risultano tracce di Meningocco di tipo b nel sangue. Andrea viene ricoverato in terapia intensiva pediatrica, io sino alle 2 resto in sala d’attesa, i medici mi informano ogni momento di quello che sta accadendo. Mio figlio è arrivato lì con il cuore quasi fermo, i polmoni sono fuori uso. Ma nella enorme sfortuna ci è andata bene: perché se la meningite fosse stata diagnosticata a Nuoro a distanza di ore dall’arrivo in ospedale, non ci avrebbero consentito di partire. E Andrea non sarebbe stato curato in una struttura altamente specializzata che in Sardegna purtroppo non abbiamo. Mio figlio si è salvato, ma tanti altri bambini muoiono perché nella nostra Regione non si pensa a loro. In Sardegna bisogna solo sperare di non ammalarsi, devi pregare che non succeda nulla ai tuoi cari, in particolare ai più piccoli, perché per loro non c’è assistenza».

Settanta giorni Andrea è tornato a casa, a Bono, dopo 70 giorni. Ventiquattro li ha trascorsi in terapia intensiva, prima di essere trasferito in malattie infettive. «Abbiamo preso un appartamento in affitto a Roma per stargli accanto. Giada è rimasta con i nonni ma veniva spesso da noi. Mio marito ha avuto il massimo sostegno al lavoro: la direttrice del carcere Patrizia Incollu, che qualche giorno fa purtroppo ci ha lasciato, gli ha detto di prendersi tutto il tempo necessario. Era una donna straordinaria, di una umanità incredibile».  Dopo il lungo periodo a Roma, per Andrea è iniziata la lunga e complessa riabilitazione. «L’emoglobina a 7, i tanti arresti cardiaci che ha avuto hanno lasciato un segno importante. La risonanza eseguita il 4 aprile ha rivelato diverse ischemie. I medici quel giorno ci hanno detto che le conseguenze sarebbero state importanti, che Andrea non avrebbe mai parlato. Ma noi non ci arrendiamo, stiamo facendo e continueremo a fare tutto il possibile». Non in Sardegna, però, neanche in questo caso: «Sono tante le cose che mancano, l’assistenza è carente sotto diversi aspetti – dice Silvia Ortu –. Mio figlio deve fare un percorso neuroriabilitativo e neuropsicomotorio, deve imparare a usare il suo corpo, a recuperare quelle funzionalità che non si sono sviluppate. Ma in Sardegna non ci sono strutture né specialisti: solo due neuropsicomotriciste per l’intera provincia di Sassari. Per questo ci siamo affidati al Stella Maris di Pisa: andiamo ogni due mesi, il prossimo controllo è a gennaio. Nel frattempo ho imparato tutti gli esercizi e li faccio io con lui a casa». Oggi Andrea ha 1 anno e 4 mesi, respira e mangia da solo, muove le mani e le braccia. Non ha ancora consapevolezza delle gambe e non parla ma ascolta e capisce. A piccoli passi andiamo avanti «senza perdere la speranza. Mio figlio si è salvato ma porterà dei segni per sempre. Non dovrebbe accadere a nessun altro bambino».

 

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