Professoressa Paola Severino, il premio “Be the hope – RFK Human Rights Italia Awards 2024” appena ricevuto da Kerry Kennedy, presidente onoraria della Robert F. Kennedy Human Rights Italia, è un riconoscimento prestigioso dell’impegno nella difesa dei diritti civili profuso dalla Fondazione Severino da lei presieduta. Poter tendere la mano a un detenuto deve essere però un premio quotidiano. Com’è nata l’idea della fondazione?
«Soprattutto durante la mia esperienza da ministro della giustizia, ho visto tanta sofferenza nelle carceri e toccato con mano come si possa cambiare la vita dei detenuti se si dà loro supporto e si lavora su formazione e inserimenti lavorativi, dando attuazione alla funzione rieducativa della pena. È stato questo a spingermi a mettere la mia esperienza al servizio degli altri».
C’è un episodio che più di tutti l’ha spinta?
«Da donna e da madre mi sconvolgevano particolarmente alcune donne ristrette con figli da cui erano state separate all’ingresso in carcere o con figli sotto i tre anni che vivevano con loro in istituto. Non smettevo di pensarci. Tornavo a casa e ne parlavo con la mia famiglia. E mia figlia, che fa l’avvocato come me, mi ha spinta a costituire la nostra Fondazione, cui si dedica con tanta passione ed energia. È stata sempre lei a insistere perché dessi il mio nome alla Fondazione. Io avevo molte perplessità. Diceva che avrebbe permesso alla fondazione di poter accedere con minori difficoltà al mondo del carcere. In effetti, così è stato».
Un’opera per una «società più giusta e coesa», dice lei, anche per i detenuti. Funziona? Quale sostegno date?
«Siamo partiti facendo formazione finalizzata a inserimenti lavorativi. Una formazione accessibile anche a chi non avesse un livello di scolarizzazione elevato, esperienze lavorative pregresse e non parlasse perfettamente la lingua italiana. E lo abbiamo fatto su professionalità che il mercato del lavoro ha difficoltà a reperire».
Per esempio?
«Penso ai corsi da montatore di ponteggi, da guidatore di muletto, di educatore e operatore cinofilo, di sommelier, di HACCP. Andando in carcere ci siamo poi resi conto che per chi ha una pena molto lunga corsi di questo tipo hanno spesso poco senso. E allora abbiamo organizzato laboratori artistici, culturali e sportivi. Fondamentali, perché si lavora sull’autostima, si offre un diverso punto di vista sui partecipanti all’area educativa, si dà uno strumento di elaborazione del proprio vissuto, di confronto con altri detenuti e si crea un ponte con l’esterno attraverso chi conduce i laboratori.
Un mondo parallelo proiettato verso la vita futura.
«È così. Abbiamo sportelli di counseling sui diritti dei detenuti, facciamo screening per evitare alcuni problemi di salute e ricerca su temi penitenziari e diritti dei detenuti con la Luiss. Sensibilizziamo infine le aziende sui vantaggi dell’inclusione lavorativa».
La realtà femminile deve essere però la più dura e delicata.
«Molte delle donne provengono da contesti difficili e commettono reati perché costrette da un uomo della loro famiglia. Necessitano quindi di un supporto per avviare un efficace percorso di risocializzazione e reinserimento. Peraltro siamo molto connotate al femminile, perché tanti degli avvocati, operatori e volontari sono donne e abbiamo a Roma il carcere per sole donne più grande di Europa. Per tutta questa serie di ragioni siamo particolarmente attivi in istituti e sezioni femminili, dove abbiamo, laboratori di ceramica, di scrittura, di teatro, di riciclo creativo, di rigenerazione di prodotti informatici. Da quest’anno abbiamo, infine, portato con Komen Italia le loro unità mobili fornite di mammografi ed ecografi per lo screening senologico.
La riabilitazione non funziona sempre. A che punto siamo?
«Ovviamente su tossicodipendenti e psichiatrici bisogna lavorare su un altro tipo di riabilitazione, affidata alle istituzioni e alle comunità. Ma con la fetta di popolazione non affetta da questi problemi la formazione e l’accompagnamento nella fase dell’uscita dà la quasi assoluta certezza che la persona seguita non tornerà a delinquere. Perché si fornisce uno strumento per raggiungere l’emancipazione economica, presupposto indispensabile per un percorso nella legalità e per non tornare a perdere la libertà».
C’è una storia di recupero che porta nel cuore?
«Una giovanissima detenuta ha commesso l’errore di portare un carico di droga in Italia. Aveva la mamma malata e, abbandonata dal padre e senza fonti di reddito, non sapeva come affrontare le spese per le sue cure. Ma è stata arrestata appena arrivata a Fiumicino e ha trascorso in carcere il durissimo periodo del covid. Qui in Italia non aveva nessuno ed era destinata all’espulsione appena finito di scontare la pena. Non solo. In vista del suo ritorno in patria l’organizzazione per la quale aveva portato la droga in Italia le aveva prospettato gravi ritorsioni per lei e la sua famiglia, visto che aveva collaborato con le autorità italiane per individuare mandanti e destinatari della droga. Sulla base di questo presupposto con un’associazione che si occupa di donne vittime di violenza, Befree, abbiamo ravvisato gli estremi per chiedere asilo. La abbiamo così inserita in un corso da sommelier svolto a Rebibbia e le abbiamo trovato un lavoro. Al momento è ancora in Italia e continua a lavorare nel mondo dell’enogastronomia con grande successo.
Quanta strada c’è ancora da fare?
«Tanta, però lavorando su formazione e risocializzazione si può contribuire ad abbassare la recidiva, a garantire la sicurezza sociale e a diminuire gli investimenti che lo Stato deve fare per mantenere così tanti detenuti in carcere e garantire la sicurezza di noi tutti. Si tratta di un compito troppo importante per poterci fermare».
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