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Elezioni Usa, un messaggio realista contro la dottrina woke #finsubito prestito immediato










Le ragioni del successo elettorale di Donald Trump, le differenze con il suo primo mandato e i possibili scenari dopo il cambio della guardia alla Casa Bianca sono stati al centro della diretta di venerdì 8 novembre dal titolo Elezioni Usa, the day after, condotta da Stefano Magni, con due firme ben note ai lettori della Bussola: Eugenio Capozzi e (in collegamento dagli Usa) John Rao.

Introducendo la conversazione, Magni parte appunto dal dato elettorale: Trump ha vinto «la maggioranza dei grandi elettori» (tecnicamente saranno questi ultimi a dicembre a eleggere il presidente), «ha vinto anche il voto popolare, ed è la prima volta che un candidato repubblicano vince il voto popolare, quindi la maggioranza assoluta degli americani, dal 2004». Senza contare Senato, Camera (dove però lo spoglio è ancora in corso) ed elezioni locali: praticamente un en plein.

Ma c’era da aspettarsi una vittoria così plateale? «Mi aspettavo una vittoria ma non così grande, eppure dopo, pensandoci, mi sembra che avrei dovuto immaginarla», risponde John Rao, citando un segnale “quotidiano” del cambiamento in vista: gli avventori di un caffè (e in una zona tra le più liberal), dove «gli operai, non importa di quale razza, parlavano sempre bene di Trump».

Capozzi evidenzia, a partire dal 2008, il «bipolarismo sociale e anche politico tra élite globaliste e forgotten people, cioè i danneggiati dalla globalizzazione: ceti medi, ceti operai», in generale quanti avevano perso la speranza dell’ascesa sociale. «Nel 2016 il primo Trump in qualche modo rivelò questa dicotomia». Negli otto anni trascorsi il progressismo woke si è ulteriormente irrigidito nella sua astrattezza e nel suo radicamento sociale in ceti benestanti, intellettuali, nei vertici delle grandi corporation transnazionali, ma c’è stata un’evoluzione nel campo avverso che Trump ha saputo abilmente cogliere», mettendo in piedi «una coalizione molto ampia e diversificata» – che non è una semplice riedizione del 2016 – evocando «la possibilità di una nuova crescita di tutta la società» che nel post-2020 ha cominciato a rialzarsi. Un messaggio «molto pragmatico e realistico», quello di Trump» colto da differenti ceti ed etnie: «il partito repubblicano non è più un partito WASP (White Anglo-Saxon Protestant), ma è diventato una coalizione interetnica e interclassista che include moltissimi afroamericani, asiatici, latinos, desiderosi di crescere» cui Trump ha risposto con un messaggio semplice e realistico: «meno tasse, più protezione dalla concorrenza sleale degli immigrati illegali, quindi chiusura delle frontiere». Un messaggio «semplicissimo, ma pratico e realista, l’esatto contrario dell’astratta ideologia woke». Per questo l’appello di Harris al voto femminista o delle minoranze non è andato in porto.

E il voto cattolico? Rao osserva che «non c’è un blocco cattolico come in passato, quando i cattolici Usa erano praticanti al 90% mentre ora sono al 15%», ma evidenzia che «i cattolici militanti sono quasi tutti nel campo di Trump e militano per la causa pro-life». Per loro la principale certezza con la vittoria di Trump è avere «più giudici favorevoli, non semplicemente alla nostra causa, ma a seguire il diritto invece che la propria volontà di cambiare il Paese in senso progressista o transumanista o transgenderista».

Capozzi registra un cambio di passo della Santa Sede rispetto alla convergenza in tema di immigrazione tra Papa Francesco e il “cattolico” Biden (benché su posizioni bioetiche differenti) nel 2016. Mentre nel 2024 «la presa di distanze “simmetrica”» rispetto a Trump e Harris (nel volo di ritorno dall’Asia) «ha reso ben chiaro che Francesco non appoggiava i Democratici». Inoltre, gli elettori latinos di Trump «sono in gran parte cattolici». Non indifferente, poi, è stato il disastroso rapporto di Kamala Harris con i cattolici.

«A giudicare dai media italiani l’unica causa perorata dalla Harris sembrava l’aborto», osserva Magni, chiedendo quindi a Rao come è stata percepita oltreoceano l’incidenza dell’aborto nella campagna Dem. «Era ovvio che per lei fosse molto importante, ma non come i Dem pensavano», risponde Rao, specificando che la questione «ora non riguarda il governo federale ma i singoli Stati». Quanto a Trump, la scelta di non toccare il tema dell’aborto ha deluso i cattolici più militanti. Tuttavia, ora come ora «è più importante avere giudici aperti a seguire la legge e proteggere le coscienze» dei cattolici obiettori negli ospedali.

Tema avvertito molto in queste elezioni è la libertà di espressione. Capozzi riconosce a Elon Musk il merito di «aver rotto l’unanimismo dei social» appiattito sulla dottrina woke. Proprio Trump quattro anni fa venne bandito da Twitter (allora in mani progressiste) e da Facebook, «vertice di una serie di censure». Il «pericolo non è scampato», ma la scelta (vincente) di Musk dimostra che «il pluralismo è possibile».

Le censure social del 2021 ci riportano al «peccato originale» attribuito a Trump dai media, ovvero i “fatti” del 6 gennaio. «Fu vero golpe?», chiede Magni. «Se così fosse, sarebbe un colpo di Stato di donne, famiglie e bambini», risponde Rao, che si trovava sul posto: «Tutti erano lì solo per dire che avevano dubbi su quanto accaduto alle elezioni».

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Tra processi e impeachment quella di Trump ricorda l’epopea giudiziaria di Berlusconi, ma all’ennesima potenza (attentati inclusi). «Berlusconi è stato il prototipo dell’outsider in politica – dice Capozzi –, dell’uomo che viene dalla società civile, del leader “populista” (latu sensu) che sfida l’establishment», che a sua volta tenta di espellerlo in tutti i modi. «La differenza tra noi e il sistema americano» non sta tanto nei media ma nell’«arbitrio della magistratura». Negli Usa «i prosecutor sono elettivi e considerati organi politici». La stessa Corte Suprema, i cui membri sono nominati a vita, non ha «nulla di paragonabile all’atteggiamento “gregario” della Corte Costituzionale» italiana.

Inevitabile porsi domande sugli scenari internazionali: chi dice che Trump fermerà le guerre e chi lo descrive come amico della Russia e nemico dell’Europa. Capozzi ricorda che «Trump è già stato presidente e ha già gestito la politica estera». E aggiunge che se «sicuramente offrirà (anche a Putin) delle possibilità per concludere il conflitto, non mollerà sulla deterrenza o su ulteriori allargamenti imperialistici». Ma prima di tutto «le semplificazioni sono destinate a essere smentite» perché «Trump è un negoziatore».

E non sarà certo un nemico dell’Europa: i sostenitori di Trump, dice Rao, «detestano l’arroganza dei globalisti, dell’OMS, del WEF, ecc.», «sono antiglobalisti, non antieuropei».





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