Il presidente del gruppo auto attende la convocazione ufficiale a Palazzo Chigi che dovrebbe arrivare a breve
John Elkann non andrà in Parlamento per discutere dei piani di Stellantis in Italia. «Non abbiamo nulla da aggiungere rispetto a quanto già illustrato dall’amministratore delegato», ha scritto Elkann al presidente della commissione Attività Produttive della Camera, Alberto Gusmeroli, riferendosi all’audizione di Carlos Tavares dello scorso 11 ottobre. Gusmeroli, leggendo in apertura di seduta la lettera di Elkann, ha annunciato che la commissione «rinnoverà la richiesta di audizione». «Credo – ha detto – che senta in sé la storia di un gruppo che ha dato tanto negli anni all’Italia ma ha ricevuto tanto dall’Italia e quindi anche per queste ragioni credo che sia utile interloquire con tutte le forze parlamentari».
Attesa per la convocazione di Palazzo Chigi
Il presidente del gruppo auto attende invece la convocazione ufficiale a Palazzo Chigi, a cui proprio una mozione di Montecitorio ha impegnato il governo e che dovrebbe arrivare a breve. E ribadisce «la disponibilità a un dialogo franco e rispettoso» nell’ambito del tavolo di confronto istituito presso il ministero delle Imprese e del Made in Italy che, tra gli altri, dovrebbe affrontare anche il tema del taglio da 4,6 miliardi apportato dalla manovra di bilancio al fondo per l’automotive.
Le tensioni con la politica
La decisione di Elkann ha suscitato lo «sconcerto» del presidente della Camera, Lorenzo Fontana. «Mi auguro che questa posizione possa essere presto chiarita», ha rimarcato in una nota. «Scavalcare il Parlamento sarebbe un atto grave». I rapporti fra Stellantis e la politica italiana restano insomma tesi. Il governo rimprovera alla casa di non investire a sufficienza per raggiungere l’obiettivo di fabbricare un milione di auto all’anno in Italia, accusandolo di delocalizzare la produzione in Paesi con un costo della manodopera più basso. Stellantis ribatte che l’entità dalla produzione in Italia dipende, anzitutto, dalla domanda di auto domestica che, specie per l’elettrico, ha bisogno del sostegno degli incentivi pubblici.
La crisi del settore auto
Lo scontro si inserisce in una fase di grave tensione industriale per l’auto europea che, inevitabilmente, diventa anche sociale e politica. In Italia così come in Germania, dove il cancelliere Olaf Scholz ha incontrato ieri il ceo di Volkswagen, Oliver Blume, per chiedergli conto della decisione di chiudere tre fabbriche in Germania — e una di Audi in Belgio — licenziando migliaia di dipendenti.
La concorrenza di Pechino
Il problema per i costruttori tedeschi risiede soprattutto nel ripiegamento protezionistico del mercato cinese. Nel 2017 i costruttori occidentali controllavano il 57% delle vendite in Cina; nel 2024 la quota è crollata al 35%, privandoli della principale valvola di sfogo per la sovraccapacità produttiva degli impianti europei.
I dazi alle auto cinesi
Per proteggere un’industria che vale il 7% del pil e il 7% dell’occupazione, così, la Commissione Ue ha approvato un aumento dei dazi fino al 45% sulle importazioni dalla Cina di auto elettriche che, secondo Bruxelles, hanno beneficiato di ingenti incentivi pubblici. Le nuove tasse entreranno in vigore giovedì 31 ottobre, a meno di un accordo dell’ultima ora con Pechino che pare poco probabile. Per ritorsione, perciò, oltre a minacciare dazi su brandy, prodotti caseari e maiale europei, il governo cinese ha imposto ai propri costruttori di sospendere gli investimenti sull’apertura di nuove fabbriche nel Vecchio Continente.
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