Il paragone tracciato oggi da Paolo Mieli sul Corriere della sera tra Matteo Renzi e Lev Trotzky, o quanto meno tra antirenzismo e antitrotzkismo, per quanto ironico, mi pare comunque un po’ ingeneroso, sia nei confronti della sinistra italiana sia nei confronti del rivoluzionario russo. In ogni caso l’esilio del leader di Italia viva in Arabia Saudita mi sembra assai più relativo e confortevole, grazie al cielo, di quello di Trotzky in Messico. Ma al di là delle battute e dei riflessi condizionati legati al cliché dell’eterno duello a sinistra, nel suo editoriale sul Corriere della sera Mieli segnala una contraddizione evidente, di cui è difficile darsi spiegazione.
A mettere il veto a Italia viva in Liguria è stato infatti Giuseppe Conte, con il sostegno di una parte della sinistra (specialmente gli ex di Articolo Uno), che ha denunciato l’inaffidabilità di un partito fino a un attimo prima presente nella stessa giunta genovese di Marco Bucci. «Ma se non è considerata una colpa passare dall’abbraccio con Salvini a quello con Zingaretti, che genere di reato è quello di mollare Bucci per Orlando?», si domanda Mieli. La questione, non nuova eppure a mia memoria mai chiaramente spiegata da nessuno, si riduce in fondo al differente trattamento riservato da una parte della sinistra alle oscillazioni (chiamiamole così) di Conte da un alto e di Renzi dall’altro.
L’idea che mi sono fatto è che si possano dare alla domanda due diverse risposte, a seconda che si parli dei dirigenti o dell’elettorato. Per quanto riguarda i dirigenti, la risposta è scontata: la differenza tra Conte e Renzi è che il primo non ha mai insidiato le loro posizioni personali (anzi), il secondo sì (eccome). Meno scontato è come questa motivazione si concili con quella di un elettorato che a suo tempo ha plebiscitato Renzi esattamente per questa ragione: perché prometteva di cacciare per sempre quei dirigenti dalla scena politica, con la «rottamazione». Per quale motivo all’opinione pubblica di sinistra oggi persino l’avere guidato un governo con Matteo Salvini, il governo dei «porti chiusi» e dei decreti sicurezza, per dirne solo una, appare un peccato veniale rispetto alle ambiguità di Renzi nel suo rapporto con Silvio Berlusconi prima e con i suoi eredi poi, peraltro raramente concretizzatesi in qualcosa di più di qualche alleanza a livello locale?
Non credo che la spiegazione si trovi nell’antica storia degli scontri a sinistra e della demonizzazione dei riformisti, da Filippo Turati a Bettino Craxi, per non parlare di Trotzky (che peraltro, se volessimo ridurlo allo stesso schema, dovremmo mettere con i radicali, non certo con i riformisti). E la principale differenza sta proprio nel fatto che qui a cominciare il gioco della demonizzazione degli avversari interni era stato per l’appunto Renzi, con il convinto sostegno, specialmente sui mezzi di comunicazione, di buona parte dei suoi più spietati critici attuali. A suo tempo, agli albori della rottamazione, il «grillino di sinistra» era lui, quando Pier Luigi Bersani per i cinquestelle era ancora «Gargamella» e il suo Pd una specie di piovra politico-mafiosa responsabile di tutti i mali del paese. È questa sorta di grillismo interiorizzato, strettamente confinante con l’antipolitica, che ha alimentato il renzismo prima e l’antirenzismo poi. È questa, mi pare, la vera costante, a sinistra, che spiega forse la dinamica autodistruttiva di tante sue leadership, da Renzi a Elly Schlein, incoronate dalle primarie in nome della lotta contro quello stesso partito che un minuto dopo si troveranno a dover guidare. Potremmo chiamarla, in omaggio al rivoluzionario russo summenzionato, la rottamazione permanente. O per meglio dire l’autorottamazione.
Leggi l’articolo di Mario Lavia su questo argomento
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