Indebitata e sfiduciata. Un’economia di fatto in recessione, le casse dello Stato gravate da una montagna di debiti, una finanziaria che ai cittadini non può dare ma solo togliere, e una sempre più lunga serie di declassamenti e bocciature da parte delle agenzie di rating e dei mercati. Da poco entrata in una complicata sessione di bilancio, Parigi si è avvitata in una crisi di fiducia senza precedenti. Il precario governo di Michel Barnier, sostenuto da una maggioranza chiassosa e rissosa, da giorni si sta barcamenando tra i veti incrociati delle forze parlamentari che lo sostengono, o quantomeno non lo depongono, per far digerire all’Assemblée Nationale e al Paese una legge di bilancio fatta quasi esclusivamente di tagli e tasse. Per mettersi in regola con le norme europee del nuovo Patto di stabilità e rassicurare i mercati, servono per cominciare 60 miliardi, circa il 2,2 per cento del prodotto interno lordo, e per trovarli c’è da mettere nuove tasse colpendo in primis il patrimonio, definanziare servizi, ritirare aiuti fiscali. Ma soprattutto serviranno compromessi per tenere in piedi quello che è allo stato attuale è un governo della non sfiducia.
Non sorprende che Matignon, sede del primo ministro, contempli, in extrema ratio, l’ipotesi di approvare la legge di bilancio senza il voto dell’Assemblea. La scorsa settimana Barnier ha ottenuto dal Consiglio dei ministri l’autorizzazione a ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione, grazie al quale può varare la manovra senza dover passare dal Parlamento. Sarebbe una mossa incauta e azzardata, che verrebbe seguita con ogni probabilità da un voto di sfiducia con le opposizioni compatte, la destra di Marine Le Pen e la sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Non è escluso ma Barnier ci ha tenuto a far sapere che ha intenzione di trovare un’intesa in Assemblea. “Ne discuteremo, come prescrivono le regole, è una possibilità costituzionale che si offre al governo”, ha spiegato la portavoce dell’esecutivo. Anche se, ha aggiunto, far passare il testo senza un vero voto “non è quello che vuole il primo ministro”, che tiene a “rispettare il voto dei parlamentari anche quando non va a favore del governo”.
Districarsi sarà complesso. Dopo la deriva del rapporto deficit/Pil al 6,1% del 2024, Parigi intende ridurlo al 5% il prossimo anno, prima di rientrare sotto la soglia europea del 3% entro il 2029, con due anni in ritardo rispetto a quanto promesso dal precedente governo. Per centrare l’obiettivo, Barnier intende ridurre la spesa pubblica di oltre 40 miliardi di euro ed aumentare temporaneamente le tasse per i più ricchi e le grandi imprese per altri 20 miliardi di euro.
Con un debito pubblico che ha superato i 3200 miliardi in valore assoluto e il 112% del prodotto interno lordo sotto la presidenza di Emmanuel Macron, in molti faticano a credere nel percorso di risanamento indicato da Barnier. In settimana Moody’s ha confermato il rating della Francia ad Aa2, rivedendo però al ribasso l’outlook da “stabile” a “negativo”. La decisione “riflette il rischio crescente che il governo francese difficilmente implementerà misure che impediranno un deficit di bilancio più ampio del previsto e un deterioramento della sostenibilità del debito”, ha spiegato Moody’s. “I rischi per il profilo di credito della Francia sono accentuati da un contesto politico e istituzionale che non è favorevole alla coesione su misure politiche che produrranno miglioramenti sostenuti nel saldo di bilancio. Di conseguenza, la gestione del bilancio è più debole di quanto avessimo precedentemente valutato”.
Poco prima l’agenzia Fitch aveva mantenuto il rating della Francia ad AA-, ma modificando l’outlook in negativo, il che significa che prevede di abbassarlo in futuro, ha precisato in un comunicato stampa. E prima ancora Scope Ratings aveva declassato il rating a lungo termine di Parigi, passando ad aa- da aa negativo ma migliorando l’outlook da negativo a stabile, evidenziando “le sfide significative legate al debito pubblico in crescita, alle incertezze politiche e al consolidamento fiscale”. A fine novembre toccherà infine a Standard&Poor’s esprimersi sull’affidabilità del debito francese.
Ma la fiducia nel governo di Parigi sta venendo meno non solo da parte delle agenzie di rating. L’indice Pmi, che misura il livello di attività dei gestori delle vendite di un comparto, del settore manifatturiero francese di ottobre ha segnato 44,5 punti, contro i 44,9 previsti dagli analisti e i 44,6 di settembre. Quello del settore dei servizi è a quota 48,3, anch’esso sotto le previsioni, l’indice composito a 47,3 punti rispetto ai 49 netti stimati. Sempre a ottobre, la fiducia delle imprese è diminuita. L’indicatore che lo sintetizza, calcolato sulla base delle risposte degli imprenditori dei principali settori di mercato, è sceso di un punto rispetto al dato di settembre, assestandosi a 97.
Secondo il presidente del Medef, la Confindustria francese, Patrick Martin, “siamo già leggermente in recessione”. Medef, le altre due organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro, il Cpme e l’U2p, così come la Fnsea (agricoltori) e l’Udes (datori di lavoro dell’economia sociale e solidale) hanno pubblicato lunedì un insolito comunicato stampa congiunto per evocare rischi di ‘delocalizzazioni’ in determinati settori. ‘La mia previsione – ha detto Martin – è che siamo già leggermente in recessione e che la previsione del governo di una crescita dell’1,1% nel 2025 è probabilmente molto ottimistica”, ha dichiarato, e “non si dovrebbe fare nulla che alteri le dinamiche aziendali”. L’istituto di statistica Insee prevede attualmente un quarto trimestre del 2024 con crescita zero, per una crescita totale dell’1,1% quest’anno.
Per cercare di mettere a posto i conti servirebbe una manovra espansiva, ma Parigi si avvia a una restrizione fiscale senza precedenti, una cura da cavallo per le finanze statali che scontenterà molti: le grandi aziende, che verranno colpite da una imposta sugli extra profitti, i contribuenti più ricchi da una patrimoniale, il mondo del trasporto con una tassa sulle emissioni inquinanti, i pensionati che parteciperanno allo sforzo di risanamento con il rinvio di sei mesi delle misure di adeguamento degli assegni all’inflazione.
L’Assemblée Nationale è entrata in uno stato di agitazione. Il deputato macronista Roland Lescure ha detto a Le Figaro che “questo bilancio, che ormai ha assunto una dimensione monumentale, sarà difficile da votare”. Il Rassemblement National di Marine Le Pen ha detto che voterà contro la legge finanziaria di Barnier: per i lepenisti la mancata indicizzazione delle pensioni è la linea rossa da non oltrepassare, anche se vale quattro miliardi. Al momento dalla legge è stata espunta la tassa sui profitti delle grandi aziende che, nei piani di Barnier, avrebbe dovuto garantire entrate per otto miliardi di euro nel 2025 e quattro miliardi nel 2026. La tassa, resa particolarmente aspra dal gruppo di sinistra, è stata quindi cestinata e potrà essere ripresa con la navetta parlamentare nel passaggio al Senato, o con un atto di forza del premier ai sensi dell’articolo 49.3 della Costituzione. Così com’è stato eliminato il maggior prelievo sulle bollette dell’elettricità, da cui il Governo sperava di raccogliere tre miliardi di euro.
Insomma, il dibattito parlamentare riprenderà il 5 novembre ma l’aula ha già cambiato i connotati alla manovra. Il ministro Saint-Martin ha invitato a “mettere un po’ di razionalità nei dibattiti”. Barnier, per il quale adesso non c’è tempo per fare “grandi riforme” alla ricerca di fondi per il bilancio, naviga a vista: a ogni seduta, i deputati gli smontano un pezzo della finanziaria, rendendo sempre più probabile il ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione. Vorrebbe dire approvare la manovra e andare tutti a casa.
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