Come si temeva, il Carrefour, dopo nove mesi di cassa integrazione straordinaria ha aperto una procedura di “licenziamento volontario” (sic). Come sempre accade, le aziende quando chiedono la cassa integrazione si inventano motivazioni nobili, è stato così anche per Carrefour ad inizio anno: “Questa soluzione permetterà di salvaguardare il livello dell’impiego e di portare avanti un processo di semplificazione e efficientamento dell’organizzazione delle attività nei punti vendita interessati, finalizzato al recupero della sostenibilità economica e al loro rilancio”, dichiarava l’azienda. Ormai non ci crede più nessun lavoratore, quando si inizia a usare la cassa (e per il Carrefour non era la prima), si apre una crepa che può solo allargarsi lasciando cadere posti di lavoro a pioggia.
A Burolo sono 13 su 125 i lavoratori che “volontariamente” lasceranno il lavoro, sommando tutti gli iper del marchio francese in provincia di Torino (oltre a Burolo, Collegno, Grugliasco, Nichelino, Moncalieri) si arriva a 95 licenziamenti. L’ultima cassa integrazione aperta della durata di 12 mesi ha portato alla riduzione di orario per circa 30 dipendenti. Oltre al danno ai lavoratori colpiti, sono peggiorate di conseguenza le condizioni di lavoro per tutti. Con 125 dipendenti a tempo pieno per una piattaforma di seimila metri quadri e i carichi di lavoro erano già eccessivi, con la cassa sono arrivati vicino all’insostenibile. Ed ora Carrefour annuncia il licenziamento di 13 lavoratori. Giovedì 24 ci sarà l’incontro tra azienda e sindacati per discutere sia degli esuberi dichiarati sia delle condizioni di lavoro di chi resta che dovrà forzatamente aumentare i ritmi e probabilmente le ore di lavoro per riuscire a tenere aperto il magazzino.
Già ora chiunque frequenti il Carrefour, ma anche in altri supermercati, vede la stanchezza nei volti delle cassiere e degli altri dipendenti impegnati in mansioni diverse. Sì, perché, se al Carrefour il rapporto personale e dimensione del magazzino peggiorerà dopo i tagli, nei supermercati aperti successivamente quel rapporto è già squilibrato in partenza. Gli addetti sono infatti chiaramente sotto la soglia necessaria per lavorare in condizioni decenti.
D’altronde poiché la redditività di un supermercato dipende anche dai costi operativi e tra questi il costo del personale, si capisce benissimo come anche queste imprese tendano a ridurre il numero di addetti, anche sotto il minimo necessario.
Ma anche con ottime politiche di riduzione del costo del lavoro, sui prezzi di acquisto e vendita, anche adottando il miglior marketing di vendita e sofisticate tecniche di fidelizzazione, ci si chiede come possano essere economicamente sostenibili così tanti supermercati uno accanto all’altro. A Ivrea e dintorni ne sono spuntati più che funghi in una giornata di sole dopo la pioggia. C’è da tenere conto di un altro fattore infatti: i supermercati, fra gli altri prodotti, “vendono” denaro alle banche che ricevono i loro incassi. I supermercati incassano liquidità immediata (contanti e pagamenti con bancomat) ma pagano i fornitori almeno a 30 giorni, se non di più, e in quel periodo la banca “paga” al supermercato la disponibilità liquida.
Il futuro dei lavoratori della grande distribuzione organizzata (non solo alimentare) non è dunque roseo come si potrebbe immaginare vedendo fiorire supermercati, discount, iper, in ogni dove. Fra i diversi motivi pesa senz’altro il carovita, i carrelli sono sempre più leggeri. Il salario reale dei lavoratori è in caduta libera. L’aumento dei prezzi che arriva da lontano, spesso attiguo alla speculazione. La guerra e le sanzioni alla Russia che hanno spezzato quell’equilibrio “gas contro beni” che sta particolarmente colpendo la Germania, ma che si fa sentire forte anche da noi. Guerra e sanzioni han prodotto una impennata dei prezzi, anche nei beni di prima necessità. Il rincaro medio per famiglia nel biennio 2021-2023* è arrivato al 14,2%, così la spesa annuale media è salita dai 21.873 euro del 2021 ai 25.913 euro del 2023. Al mese l’aumento è costato mediamente 337 euro (fonte Cgia di Mestre)
Se qualche anno fa riempivi una borsa della spesa e stavi attorno ai 20 euro, oggi ce ne vuole quasi il doppio. Ergo, tutta la fascia di popolazione a rischio povertà alleggerisce il carrello. Una fascia di dimensioni di paese pre-industrializzato, altro che G7! I dati Istat ci parlano di quasi 6 milioni di indigenti, quasi una persona su 10, e fra questi non solo disoccupati, ma anche operai con stipendi da fame, appunto. Ma a ridurre gli acquisti non sono solo gli indigenti conclamati, ma anche chi deve fare i salti mortali per arrivare a fine mese, e spesso non ci riesce.
E in questo scenario, in una città come Ivrea dove si aggiunge allo scenario generale anche la diminuzione della popolazione, cosa si fa? Si lascia aprire l’ennesimo supermercato, in pieno centro. La Grande Distribuzione Organizzata dopo aver fagocitato il piccolo commercio di prossimità, rischia oggi di diventare cannibale, perché non c’è mercato per tutti.
In tutto ciò dove sono le amministrazioni pubbliche, dal Comune alla Regione? Perché, se è vero che gli oneri di urbanizzazione e poi i tributi derivati da questi impianti sono linfa vitale per i Comuni che vedono ancora ridurre i trasferimenti statali per i servizi ai cittadini, e se è anche vero che l’iniziativa privata è libera, non dimentichiamo che la nostra Costituzione nell’art. 41 indica anche che “[L’iniziativa economica privata] Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.
Dove sono questi controlli opportuni? E parlando in generale della situazione lavoro nel nostro territorio, a che punto è l’Osservatorio del mercato del lavoro del Comune di Ivrea? Sembrava dovesse essere una priorità come “strumento strategico di analisi e utile a orientare azioni di programmazione, di sviluppo, di politiche attive del lavoro”, ma la sensazione è che giaccia ancora laddove l’hanno seppellito precedenti amministrazioni.
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