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Il cinema di Hirokazu Kore-eda è uno dei pochi, nel Giappone contemporaneo, a interrogarsi in modo sempre fertile sul significato del legame affettivo, sul suo valore sociale e su quello strettamente intimo. In Un affare di famiglia lo fa raccontando con sguardo dolorosamente sincero un nucleo umano che ha scelto di crearsi come ‘consanguinei’. In concorso al Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro.

Chi ruba nei supermercati

Di ritorno da un nuovo furtarello in un supermercato, Osamu e suo figlio raccolgono per strada una bambina che sembra abbandonata a se stessa. All’inizio riluttante all’idea di ospitare la piccina per la notte, la moglie di Osamu accetta di occuparsi di lei quando scoprono che i suoi genitori la maltrattano. Nonostante la loro povertà, vivendo di espedienti e piccoli furti che completano il loro magro salario, i membri di questa famiglia sembrano vivere felici, fino a quando un incidente rivela brutalmente il loro segreto… [sinossi]

In Italia il nuovo film di Hirokazu Kore-eda diventa Un affare di famiglia, smarcandosi dal titolo internazionale Shoplifters, vale a dire taccheggiatori, che però traduce in maniera fedele solo una parte dell’originale giapponese Manbiki kazoku, 万引 (manbiki). A venire eliso è dunque kazoku, 家族, che unendo gli ideogrammi di “casa” e “stirpe” forma la parola famiglia. Può sembrare un dettaglio di poco conto, evidente solo agli occhi degli yamatologi e degli appassionati della cultura giapponese, ma questa scelta per il titolo internazionale ha in sé un valore tutt’altro che trascurabile. L’intera filmografia di Hirokazu Kore-eda, iniziata ventitré anni fa con il sorprendente Maborosi, ruota attorno al concetto basilare di famiglia. Il legame affettivo contro il legame di sangue, il rapporto a volte conflittuale tra genitori e figli, la necessità di scavare radici profonde per sé e per la propria progenie. A volte per il proprio onore, altro concetto che nella cultura nipponica conquista un ruolo di primo piano. I protagonisti di Un affare di famiglia saranno anche ladruncoli seriali che ammortizzano la scarsa capacità economica concessa loro da lavori usuranti e mal pagati rubando nei supermercati e nei negozi, ma il vero centro nevralgico del discorso riguarda il loro voler essere a tutti i costi una famiglia. Desiderarlo al di là della realtà dei fatti, oltrepassando i confini della legge, facendosi beffe della morale dominante. Essere una famiglia per patire insieme e ridere insieme, per andare avanti in quella metropoli che tutto schiaccia in cui vivono, la Tokyo dei vestiti alla moda e delle auto di lusso. La famiglia composta da Osamu – che fa l’operaio in un cantiere edile –, Hatsue, che sbarca il lunario in una grande lavanderia, dal loro figlioletto Shota, dalla sorella di lei (studentessa che lavora come prostituta in un locale a luci rosse) e dalla nonna delle due, a sua volta ex prostituta, è una rarità nel Giappone contemporaneo. E come palese anomalia non può che essere ‘falsa’, un esperimento. Una famiglia composta un po’ dal caso e un po’ dall’azzardo. Gli stessi caso e azzardo dopotutto portano nella casetta vecchia e sporca in cui vivono anche la piccola bambina di cinque anni che ribattezzano Rin. Osamu e Shota l’hanno avvistata dopo aver derubato un supermercato, sola soletta al freddo e al gelo. L’hanno portata a casa, dapprima solo per una notte e poi – dopo aver scoperto che i suoi genitori la picchiano – l’hanno fatta diventare parte della famiglia. Una famiglia che si è composta tutta così, senza quasi nessun legame di sangue. Una famiglia per scelta.

Kore-eda torna ai suoi temi cardine, compreso lo sguardo su e dalla parte dei bambini, e probabilmente non aggiunge nulla di particolare alla sua poetica espressiva. L’occhio della camera è sempre minimale, i dialoghi sono fatti anche di dettagli che altri registi considererebbero secondari o perfino futili e privi di sostanza. Il quotidiano irrompe sullo schermo, e dopo la parentesi legal di The Third Murder (che era in concorso alla scorsa Mostra di Venezia), il regista di Still Walking e Father and Son torna a concentrarsi sugli affetti del sangue attraverso una struttura drammatica non dimentica di svisate più prossime alla commedia. Soprattutto la prima aprte di Un affare di famiglia sembra indirizzata verso i toni lievi e dolcemente melanconici di titoli quali Little Sister o Ritratto di famiglia con tempesta; il rapporto tra Osamu e Hatsue è carico di una dolcezza espressa a tratti in maniera nascosta a tratti con impeti di passione; il loro modo di crescere i figli – che non essendo loro per diritto genetico non possono essere iscritti a scuola e non possono farsi notare più di tanto – è dominato da un amore naturale, istintivo, del tutto sgravato degli obblighi della discendenza.
Questa riflessione più delicata si scontra con la dura realtà quando avviene il primo scarto, la pedina del domino destinata inevitabilmente a distruggere l’idillio artificiale: la nonna, sulla cui pensione si basava una parte non indifferente dell’economia familiare, muore nella notte, dopo una splendida giornata di vacanza passata al mare. Lì, dove la famiglia aveva compiuto il passaggio definitivo, tutto torna a rompersi. Perché esiste una società fuori dalla famiglia. Una società di cui la famiglia non fa parte se non in modo laterale. Una società ferale e crudele, che ha ritmi e regole proprie e non può accettare l’anomalia, l’eccezione. Di fronte alla società, convitato di pietra dalle cui grinfie non si può sfuggire e che distrugge col sorriso, in nome di diritti che sono considerati ovvi ma si basano in realtà su codici di comportamento preordinati e definiti, la bizzarra struttura messa in piedi da Osamu e Hatsue vacilla e crolla.

“I figli devono crescere con le mamme” asserisce l’assistente sociale che sta interrogando Hatsue, fermata per sequestro di minore e forse anche per omicidio – la nonna-che-nonna-non-è è stata sepolta in giardino nel tentativo disperato di mantenere il segreto e non far trapelare la verità. La donna risponde, con un triste sarcasmo “È proprio quello che vogliono credere le mamme”. Qui, come nel paradosso di aver tolto una bambina a due genitori amorosi solo perché finti per restituirla ai legittimi padre e madre che la picchiano e la snobbano, risiede il vero centro del discorso di Kore-eda, e l’acme tragico di un film che racconta una società impossibile da redimere, e incapace di scorgere l’umano al di là del legale. Esistono affetti che maturano al di là di ogni ragionevolezza, o senso, ma il consesso civile non lo tollererà mai. Forse mai, neanche nello sguardo tutto infantile – e costretto alla distruzione – del miracoloso Nobody Knows, Kore-eda si era dimostrato così disperato, tragico, privo di qualsivoglia speranza. Una tragedia che è, per quel che riguarda l’interpretazione del concetto di famiglia, parte integrante dell’intera storia del Giappone, e non è un caso che il pin del bancomat della nonnina sia 1192, in riferimento all’anno in cui Minamoto no Yorimoto ricevette il titolo di shōgun e fondò il primo bakufu. Se c’è felicità è solo nell’instabilità effimera, come i fuochi d’artificio che illuminano una notte su Tokyo, dalle parti del fiume Sumida. Per il resto si può tornare alla vita di tutti i giorni, ma non si avrà il coraggio di salutare come ‘papà’ colui che si ritiene l’unico e vero padre. Oppure ci si fermerà con lo sguardo nel vuoto, come la piccola Rin abbandonata di nuovo a se stessa, agognando forse di essere salvata un’altra volta. Sognando di avere di nuovo una famiglia.

Info
Il teaser di Un affare di famiglia.



 

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