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Resta al palo l’elenco degli operatori del microcredito, i soggetti abilitati all’erogazione di piccole somme alle imprese e alle famiglie. A quasi quattro anni dall’istituzione, gli operatori iscritti alla lista tenuta da Bankitalia sono soltanto tredici. Nove nel 2016, più altri quattro nel biennio successivo, due all’anno. Pochi, decisamente pochi, per dare una bella spallata alla porta che sbarra l’accesso al credito ai soggetti non bancabili (il tetto massimo del credito è 25mila euro per le imprese, 10mila per le famiglie).

La riforma dell’articolo 111 del testo unico bancario che ha introdotto la figura degli operatori nel microcredito mirava proprio a dar vita a delle figure specializzate. Nell’elenco avrebbero dovuto iscriversi o soggetti nati apposta o confluire gli intermediari finanziari non bancari già esistenti, conosciuti come “106” dal numero dell’articolo del testo bancario che li prevede. La riforma però, è stata un flop. Su 13 iscritti, gli operatori nati ex novo sono solo sei. Sette invece gli ex 106, gli intermediari già attivi che si sono trasformati in 111. Sia gli intermediari finanziari non bancari sia le stesse banche tuttavia possono erogare microcredito anche se non fan- no parte dell’albo ad hoc. È sufficiente che rispettino la legge sul microcredito e che forniscano i servizi ausiliari, cioè di accompagnamento come ad esempio il supporto alla stesura del business plan o l’assistenza legale e fiscale.

I paletti
Ma vediamo quali sono i paletti messi dalla normativa e che hanno finito per soffocare gli operatori di microcredito. Devono erogare, ad esempio, almeno il 51% dei prestiti alle imprese e il restante alle famiglie. «Si tratta di una restrizione che impatta con il nostro modello di business che invece è più orientato alle famiglie», spiega Andrea Limone, amministratore delegato di PerMicro, un intermediario 106. In sostanza per diventare operatore di microcredito avrebbe dovuto rinunciare a metà clientela. Secondo requisito: l’anzianità di impresa. Possono essere finanziate solo le società con meno di 5 anni di vita. «Restano fuori così le imprese che hanno bisogno di ristrutturazione e di rilancio», osserva Giampietro Pizzo, presidente della Rete italiana di microfinanza (Ritmi). Terzo: la “dimensione” dell’impresa beneficiaria. Il fatturato non deve superare i 200mila euro. «Si tratta di nano imprese, in realtà. La definizione europea di micro-imprese arriva invece fino a 2 milioni», aggiunge Pizzo. Quarto limite: i tassi. Anche qui i parametri fissati dalla normativa li rendono poco competitivi, soprattutto quelli per le famiglie. Non è tuttavia l’unico motivo che ha sbilanciato l’asse dei prestiti verso le imprese. «Finanziamo poco le persone fisiche perché non abbiamo una formazione ad hoc per valutare il merito creditizio e, soprattutto, perché le famiglie non sono coperte dal Fondo centrale di garanzia come le persone giuridiche», fa notare Giorgio Giancamilli, direttore generale di Fidi- persona di Ancona. Fidipersona, uno dei tredici operatori di microcredito, lavora per il 95% con le imprese. Nel caso di “bidone” rischia insomma di perdere il 100% del finanziamento contro il 20% del mutuo dato alle imprese. Stessa musica per MikroKapital di Milano. L’anno scorso ha erogato 3,2 milioni alle imprese e solo 150mila euro al sociale. Mikro Kapital ha preferito assumere la veste giuridica di operatore di microcredito perché, argomenta il direttore generale Stefano Guerra, «gli operatori sono ancora pochi, e quindi c’è minor concorrenza, e perché l’infra- struttura organizzativa è meno pesante rispetto a quella per le 106. Non è richiesto ad esempio l’ufficio interno per l’anti-riciclaggio».

Il punto, torniamo ai tassi, è che sugli interessi pesa il costo dei servizi ausiliari obbligatori, cioè l’analisi e il monitoraggio costante del progetto di impresa finanziato. Pizzo propone di attingere alle risorse del Fondo sociale europeo per alleggerire il carico dei servizi. «Non sarebbe una sovvenzione ma un investimento in linea con l’obiettivo del Fondo sociale, che è proprio l’occupabilità. Si spendono tante risorse comunitarie in formazione professionale fine a sé stessa. Perché non mirarla invece al supporto delle microimpre

Le proposte sul tavolo
Ma chi ha voluto tutti questi lacci che hanno imbrigliato il microcredito e scoraggiato l’iscrizione nell’elenco ad hoc? «Ci sono stati forti ritardi. Non è un caso se da quando è stato licenziato il testo che istituiva gli operatori 111 nel 2010, sono passati 4 anni per la stesura dei decreti attuativi», sottolinea Pizzo di Ritmi. Troppo appetibile la torta dei crediti fino a 25mila per lasciare spazio agli “intrusi” della microfinanza? «Noi non siamo in competizione con le banche tradizionali. Il nostro obiettivo semmai è accompagnare nel medio periodo le imprese non bancabili proprio all’interno del sistema del credito ordinario», riflette Guerra di Mikrokapital. Come legare i due mondi? Un primo passo lo ha fatto l’Ente nazionale del microcredito che ha istituito l’elenco degli operatori territoriali in servizi ausiliari e di monitoraggio per il microcredito. Al momento conta 496 iscritti fra società, enti non profit e singoli professionisti. Grazie a questi tutor, le banche offrono i servizi colmando così, da un lato la loro minor preparazione nell’accompagnamento alle imprese, dall’altro il buco nell’offerta di microcredito. Da dove ripartire dunque? Le proposte sul tavolo non mancano. Primo punto all’ordine del giorno: l’accesso al credito.

Il vero problema della microfinanza è infatti il reperimento delle risorse da prestare a famiglie e imprese, specie per gli operatori che non hanno alle spalle delle banche. «Dovremmo poter accedere al mercato interbancario dove le banche si scambiano denari a tassi interessanti. Ma gli operatori di microcredito non sono contemplati. Facciamo inclusione finanziaria, ma siamo degli “esclusi”», sintetizza con una battuta Guerra. Manca chi batta i pugni sui tavoli regionali, nazionali e comunitari. Servirebbe un portavoce del microcredito. Gli operatori speravano nell’Ente nazionale ma così non è stato, dicono. «Dovrebbe dare più supporto agli operatori abilitati», sottolinea Guerra.



 

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