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La riforma del sistema penale tributario richiede un difficile equilibrio fra l’esigenza di scoraggiare e punire sofisticate strategie di pianificazione fiscale assimilabili all’evasione e quella di ridurre l’incertezza che grava su chi intraprende investimenti in organizzazioni complesse.
Questo inizio di 2015 vede una serrata discussione sullo schema di decreto delegato in tema di reati tributari . Il dibattito italiano si inserisce in un contesto più ampio, nel quale lo scalpore suscitato da alcuni casi di pianificazione fiscale aggressiva di multinazionali ha alimentato una serie di iniziative anche a livello internazionale per arginare tali fenomeni. Alla luce anche degli sviluppi internazionali, una modifica dell’attuale assetto penale tributario è senz’altro opportuna al fine di ricondurre a una maggiore unità e coerenza un sistema che ormai risulta sfrangiato.
In primo luogo, quattro elementi dell’attuale impianto non sono sempre stati evidenziati chiaramente:
i) la condanna penale non è l’unica sanzione per l’evasione: esiste un regime sanzionatorio amministrativo con pene pecuniarie anche molto elevate;
ii) il procedimento penale non si innesca una volta che sia stata definitamente accertata l’evasione, ma scatta quasi automaticamente, dando luogo a un procedimento autonomo, quando l’amministrazione contesta al contribuente il superamento di alcune soglie minime di evasione presunta;
iii) a seguito di numerose sentenze si è smarrita quella che era (in parte) l’originale filosofia dell’attuale normativa (introdotta con il decreto legislativo 74/2000) e che presupponeva una focalizzazione della risposta repressiva sulle condotte fraudolente. Il campo dei comportamenti penalmente rilevanti è stato esteso a condotte anche non esplicitamente intenzionali ovvero individuate talvolta retroattivamente;
iv) l’estensione delle fattispecie riconducibili a un abuso del diritto, ovvero un vantaggio fiscale considerato indebito anche se formalmente coerente con la lettera della norma, ha portato nei fatti a considerare qualsiasi forma elusiva alla stregua di un comportamento riconducibile all’evasione (e, quindi, al superamento di talune soglie di punibilità, a un comportamento costituente reato tributario). Questa evoluzione, non in linea con le prassi internazionali, ha generato, soprattutto negli investitori esteri, la percezione di un elevato rischio penale che contribuisce ad accrescere l’onere effettivo sugli investimenti effettuati nel nostro paese.
Ciascuno di questi punti suscita brevi riflessioni.
QUALI COMPORTAMENTI SANZIONARE
La prima è legata all’opinione dominante su molti media secondo cui ogni modifica dell’attuale assetto penale tributario rappresenterebbe un arretramento rispetto a una ipotetica linea della fermezza e finirebbe per pregiudicare, di conseguenza, l’azione di contrasto all’evasione fiscale. I modelli teorici suggeriscono che la deterrenza può essere ottenuta non solo con sanzioni penali, ma anche con sanzioni amministrative che possono risultare molto pesanti sotto il profilo pecuniario. La previsione di una sanzione penale dovrebbe tenere dovutamente conto della gravità della contestazione, dell’onerosità (anche in termini economici e sociali) dei procedimenti penali per la collettività e dell’irreparabilità dello stigma sociale che caratterizza questo genere di misure anche quando il procedimento si conclude a favore del contribuente. Rimodulare la risposta penale, pertanto, non rappresenta una forma di resa, ma un tentativo di fare il migliore uso di risorse scarse e costose. È opportuno inoltre far tesoro dell’esperienza che il nostro paese ha accumulato negli ultimi decenni. La fallimentare esperienza della disciplina anteriore a quella vigente (la legge 516/82 meglio nota come “manette agli evasori”), che prevedeva il procedimento penale tributario anche per violazioni solo formali, dimostra come il mero ampliamento delle sanzioni penali non costituisce un presidio significativo contro i fenomeni evasivi. La seconda riflessione riguarda l’impatto che le stratificazioni normative e giurisprudenziali hanno avuto sul nostro sistema, per cui la sanzione penale non si applica più solo alla vera e propria criminalità fiscale (come l’emissione e impiego di fatture false, la distruzione della contabilità o ancora le infedeltà commesse attraverso l’impiego di documenti alterati; tutte condotte per le quali ogni ipotesi di depenalizzazione è fuori luogo), ma anche ai casi di infedeltà dichiarativa che possono derivare della semplice riqualificazione (giuridica) di costi o ricavi realmente esistenti o anche solo per effetto dell’indeducibilità fiscale di alcuni oneri. È, ad esempio, l’ipotesi dell’impresa che sostenga costi (effettivi) per importazioni da Stati a fiscalità privilegiata (i cosiddetti Stati black list), quale può essere Hong Kong. In questo caso i costi sono deducibili solo se il contribuente dimostra che il fornitore estero esercita una effettiva attività commerciale oppure che sussiste un effettivo interesse economico nella transazione. Nel caso le prove fornite dal contribuente non siano considerate sufficienti, l’amministrazione finanziaria può contestare il reato di dichiarazione infedele se i costi dedotti superano i 2 milioni di euro e la corrispondente imposta i 50 mila euro.
LA QUESTIONE DELL’ELUSIONE
Allo stesso modo, possono assumere rilevanza penale condotte considerate abusive o elusive (nelle quali, a differenza dell’evasione, non è ravvisabile alcuna violazione normativa). Può apparire a prima vista un approccio ragionevole: perché mandare esente da sanzione penale il presunto elusore che erode l’imponibile nel rispetto formale dell’ordinamento e prevedere, invece, alcuni anni di reclusione per chi dovesse impiegare una fattura non veritiera di poche centinaia di euro? Tuttavia il diavolo è nei dettagli. Nella gran parte dei casi, infatti, questo genere di contestazioni si sostanzia in un giudizio retrospettivo dell’amministrazione finanziaria incentrato su valutazioni con un ampio grado di incertezza, come la presenza o meno di valide ragioni economiche o extrafiscali, la rilevanza delle stesse nell’attuazione della sequenza negoziale, l’identificazione del regime fiscale di riferimento (ossia quello che avrebbe dovuto essere fisiologicamente osservato e che, invece, è stato eluso) nonché l’individuazione dei principi ispiratori della materia tributaria oggetto di potenziale aggiramento. È evidente la difficoltà del contribuente di prevedere con ragionevolezza le conseguenze del proprio comportamento in termini punitivi (fatti salvi casi eccezionali in cui il giudizio di elusività si basi su di una già articolata esperienza giurisprudenziale e dottrinale ovvero la manipolazione dell’assetto normativo risulti palese). E ciò conduce alla correlazione fra sanzioni penali e investimenti, che costituisce una delle ragioni forti per riformare l’assetto esistente.
È pur vero che l’incertezza non è una caratteristica esclusiva del nostro ordinamento, ma riguarda in maggiore o minore misura tutti i sistemi tributari moderni, tuttavia l’incremento di procedimenti penali su forme di ricchezza dichiarate ma interpretate in modo differente da contribuente e amministrazione costituisce un problema non più eludibile. La tabella 1 riporta evoluzione delle comunicazioni di notizia di reato da parte della Guardia di finanza dal 2006. Si osserva un generale trend crescente di denunce (il numero di soggetti denunciati e il numero di violazioni aumenta di circa l’80 per cento), che è però molto meno accentuato della crescita delle denunce per dichiarazione infedele (che crescono del 176 per cento). La circostanza che la reinterpretazione a posteriori delle transazioni di un’impresa possa esporre il management a un procedimento penale (per di più dalla tempistica non preventivabile ex ante) costituisce un profilo incomprensibile per gli operatori stranieri che disincentiva fortemente gli investimenti, in particolare delle società maggiormente sensibili al cosiddetto rischio reputazionale. Questo rischio si concretizza non solo con la condanna (che è un evento raro) ma spesso con la sola denuncia e con l’esposizione mediatica durante il processo (anche quando si conclude a favore del contribuente).
In conclusione, la riforma dell’attuale sistema penale tributario è una iniziativa senz’altro opportuna e sicuramente delicata che richiede di definire un difficile equilibrio fra l’esigenza di scoraggiare e punire sofisticate strategie di pianificazione fiscale assimilabili per la loro gravità all’evasione e l’esigenza di ridurre l’alea che grava su chi intraprende investimenti in organizzazioni oggettivamente complesse.
 

Tabella 1 – Comunicazione di delitti tributari della Guardia di Finanza

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Socio fondatore di European Investment Consulting, società attiva nell’ambito della consulenza finanziaria ad investitori istituzionali. E’ laureato in Economia e Commercio a Roma ed ha conseguito un dottorato ad Oxford.

Giampaolo Arachi

arachi Professore di finanza pubblica all’Università del Salento e docente dell’Università Bocconi di Milano presso il Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico

Marco Di Siena

Marco Di Siena è avvocato in Roma –socio dello studio legale Chiomenti- e dottore di ricerca in diritto tributario all’Università La Sapienza a Roma.

 

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