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Dopo la pubblicazione in Gazzetta  del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza“,  nasce dalla collana In Pratica di Ipsoa il volume Fallimento e Crisi d’Impresa aggiornato: libro + soluzione digitale aggiornata in tempo reale! 

Il volume tratta sia l’attuale legge fallimentare che il decreto di riforma della crisi d’impresa, offrendo una lettura comparata tra le due normative.

Di seguito pubblichiamo un estratto tratto dal capitolo dedicato al concordato preventivo in cui si evidenziano le preziose caratteristiche del volume: operatività dei contenuti e facilità di consultazione e lettura, grazie a elementi grafici e icone, rimandi diretti e puntuali tra gli argomenti del volume, tabelle, schemi riepilogativi, casi ed esempi, sommario iniziale ad ogni capitolo, parole chiave evidenziate e un dettagliato indice analitico e dei casi.

Chi può accedere

L’art. 160 l. fall. attiene ai presupposti, oggettivi e soggettivi, per l’accesso alla procedura di concordato preventivo e illustra il contenuto della proposta, individuando quello possibile e quello necessario, nonché l’ammontare minimo del grado di soddisfacimento dei creditori. L’individuazione di chi può richiedere il concordato preventivo non si rinviene immediatamente nell’art. 160, che prevede che può accedere al concordato l’imprenditore senza ulteriori specificazioni, ma nell’art. 1 (rubricato: “Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo”) che a sua volta prevede che la domanda di concordato preventivo possa essere presentata solo da un imprenditore che esercita un’attività commerciale (vedi art. 2195 c.c.), con esclusione degli imprenditori agricoli e degli enti pubblici, e quindi in primo luogo dello Stato. 

Esclusioni 

Non tutti gli imprenditori commerciali sono tuttavia ammessi al concordato, in quanto sono esclusi, così come lo sono dal fallimento, quelli c.d. sotto soglia in quanto dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: 

a. aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila

b. aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila

c. avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila

La temporanea non fallibilità

Pur non potendo essere dichiarato fallito, può essere ammesso al concordato preventivo anche l’imprenditore che abbia debiti scaduti inferiori a 30.000 euro, in quanto si tratta di un mero impedimento processuale.

Possono accedere al concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale e che superano le soglie di fallibilità.  

Lo stato di crisi 

Per essere ammesso al concordato l’imprenditore deve trovarsi in stato di crisi. Non vi è un’esplicita definizione di stato di crisi nella legge fallimentare, che si limita a prevedere che nell’ambito del concetto di stato di crisi è ricompreso anche lo stato di insolvenza, che ne costituisce la fase più grave e che, come prevede l’art. 5, “si manifesta con inadempimenti o altri fattori esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

La definizione della legge delega

Una definizione di stato di crisi può comunque ricavarsi dalla L. 19/10/2017, n. 155 di delega al Governo per la riforma delle procedure di crisi di impresa, che prevede di ‘’introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza’’, previsione che è stata attuata fornendo, nella bozza di decreto delegato la definizione secondo la quale è “crisi”: “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. 

Per poter accedere al concordato preventivo l’impresa deve essere in stato di crisi (che nella forma più grave è connotata dall’insolvenza). 

Ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei crediti

La lett. a) dell’art. 160 prevede la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione dei beni, accollo, o altre operazioni straordinarie, ivi compresa l’attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, o altri strumenti finanziari e titoli di debito. Quindi innanzitutto la proposta può prevedere la ristrutturazione dei debiti e quindi lo spettro va dal pagamento integrale del debito con una dilazione dell’esecuzione ad un pagamento in percentuale e dilazionato nel tempo, con tutte le possibili soluzioni intermedie. Anche la soddisfazione dei creditori e quindi la modalità con cui l’obbligazione contratta viene adempiuta con conseguente estinzione del credito può assumere qualsiasi forma lecita, in quanto le modalità indicate dalla norma non esauriscono le possibilità offerte al debitore, ma costituiscono solo un elenco esemplificativo. Via libera, dunque, in deroga al disposto degli artt. 1197 e 1277 c.c., a forme di adempimento diverse dal pagamento in denaro quali la cessione di azioni o quote sociali, anche alle banche, nonostante per esse viga il divieto di acquisizione di partecipazioni (Cass., sez. I, 07/05/2014, n. 9841), la datio in solutum, ecc.; è possibile anche la cessione di crediti, con la precisazione che a mente dell’art. 1198 c.c., l’estinzione dell’obbligazione da concordato si verifica con la riscossione del credito. La legge prevede che nel piano di concordato possano essere previste operazioni quali la ricapitalizzazione della società magari con la formazione di una nuova compagine sociale, operazioni straordinarie sostanzialmente finalizzate alla riorganizzazione della società, che può comportare la modifica della sua struttura (tramite fusioni, scissioni, trasformazioni) attraverso le quali pervenire all’adempimento della proposta.

Le opposizioni alle operazioni societarie (omissis)

La proposta deve necessariamente prevedere la soluzione della crisi mediante ristrutturazione dei debiti e/o soddisfacimento dei crediti in misura non minimale e in un tempo ragionevole.  

Il concordato con cessione dei beni

Forma più utilizzata  – La forma più comune di piano di concordato prevede ancora la cessione dei beni ai creditori che, secondo la ricostruzione classica, consiste nella messa a disposizione dei creditori dei beni del debitore, affinché, attraverso gli organi della procedura, vengano liquidati e il ricavato distribuito secondo le regole di graduazione.

La cessio bonorum codicistica – Meno praticabile, anche se astrattamente possibile attesa la libertà delle forme di confezionamento del concordato, è la vera e propria cessione dei beni (art. 1977 c.c.) con effetto traslativo della proprietà degli stessi ai creditori in regime di comunione, non fosse altro per i rischi derivanti dalle responsabilità connesse alla proprietà. 

Cessione parziale del patrimonio dell’imprenditore – Secondo parte della dottrina, che fa leva sulla modifica della formulazione della norma che non prevede più la cessione “di tutti i beni esistenti nel suo patrimonio”, ma solo la “cessione di beni”, sarebbe possibile la cessione parziale del patrimonio dell’imprenditore; la tesi, che non trova unanimi consensi in giurisprudenza (contrario Trib. Torino, sez. fall., 05/06/2014), non convince, in quanto la diversa dizione della legge si spiega con la possibilità di proporre anche un concordato con continuità aziendale grazie al quale l’imprenditore può mantenere la proprietà di tutto il patrimonio o liquidarne solo la parte non funzionale alla prosecuzione dell’attività. Comunque, l’esclusione di alcuni beni dalla liquidazione, senza l’utilizzo degli stessi per produrre flussi finanziari da destinare ai creditori grazie alla prosecuzione dell’attività di impresa, costituirebbe violazione dell’art. 2740 c.c. che prevede che tutti i beni dell’imprenditore costituiscano la garanzia dei creditori, che sugli stessi debbono poter contare per il loro soddisfacimento.

Assicurazione della percentuale minima – La proposta che può essere rivolta ai creditori nell’ambito di un concordato il cui piano preveda la cessione dei beni non è tuttavia del tutto libera, in quanto costituisce condizione di ammissibilità della stessa l’osservanza del comma 4 dell’art. 160 (aggiunto con il D.L. 27/06/2015, n. 83 conv. in L. 06/08/2015, n. 123), a mente del quale in ogni caso la proposta deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. Sul significato del termine “assicurare” non vi è unanimità di opinioni. Posto infatti che la giurisprudenza di legittimità prima della modifi ca era ferme nel ritenere che le percentuali di soddisfacimento riportate nella proposta non fossero vincolanti, ma unicamente indicative (Cass., SS.UU., 23/01/2013, n. 1521; Cass., sez. I, 14/09/2016, n. 18091), si sono formati due filoni interpretativi: secondo il primo, nettamente prevalente, la disposizione comporta che il proponente debba assumersi l’obbligo del pagamento almeno della percentuale minima indicata; secondo una diversa impostazione la circostanza che la proposta debba assicurare un certo risultato significa che il proponente deve fornire elementi concreti che rendano ragionevolmente certo che tale risultato sarà raggiunto. Le diverse impostazioni non incidono tanto sull’ammissione o sull’omologazione, in quanto di fatto entrambe impongono una valutazione circa la sussistenza di elementi idonei a supportare l’’’assicurazione’’, quanto sulle conseguenze del mancato raggiungimento della percentuale minima assicurata, dal quale solo i fautori della tesi dell’assunzione di un obbligo da parte del proponente fanno derivare l’inadempimento quale motivo della risoluzione del concordato. Si è discusso se la percentuale minima debba essere calcolata in relazione a ciascun creditore o sul complesso dei crediti chirografari per cui, a parità di valore dei crediti rappresentati ad una classe, potrebbe essere proposto il 30% ed altra il 10%; prevale la tesi che il 20% debba essere calcolato sull’ammontare complessivo del credito chirografario

Il concordato con assuntore

Struttura – Con la lett. b) dell’art. 160 si formalizza ciò che era già comune nella prassi e pacifi co in giurisprudenza (ex aliis, Cass. 07/12/1984, n. 6462): è legittimo il concordato con assuntore che comporti la cessione delle attività dell’impresa in concordato ad un terzo, il quale assume l’obbligo di adempiere al debito concordatario. Si tratta di possibilità di sicuro interesse che aumenta notevolmente lo spettro di accesso al concordato in quanto consente, di fatto, di superare il limite dato dalla legittimazione esclusiva alla presentazione della domanda di concordato da parte del debitore il quale, se non ha la disponibilità economica a formulare una proposta ammissibile, ma ha già individuato un interessato a rilevare la sua attività, può evitare il fallimento grazie allo strumento del concordato con assuntore. La dichiarazione con la quale il terzo assume l’obbligo di soddisfare i credito-ri concordatari può essere inserita nella stessa proposta di concordato, sottoscritta pertanto sia dal proponente che dall’assuntore, oppure in un atto a parte da allegare alla domanda ed è formulata normalmente secondo lo schema dell’accollo (art. 1273 c.c.). 

Limitazione della responsabilità dell’assuntore – In difetto di una sub procedura di verifi ca dei crediti effettuata non in via incidentale non è applicabile in via analogica la disposizione dell’art. 124 dettata per il concordato fallimentare, e quindi non è consentito limitare la responsabilità del terzo che si assume l’onere di soddisfare i creditori a coloro che sono stati ammessi al voto. Per la verità, la Cassazione sembra non escludere tale possibilità, trovando un contrappeso, per i creditori non presi in considerazione nella proposta, nell’inapplicabilità dell’ultimo comma dell’art. 124 e quindi nella perdurante responsabilità del debitore in concordato (Cass., sez. I, Sent. – ud. 04/11/2008 – 04/02/2009, n. 2706) e avendo in altra occasione ritenuto, a fronte dell’ovvia obbiezione secondo la quale detti creditori si troverebbero di fronte ad un debitore senza più patrimonio, che non vi è sospetto di incostituzionalità, in quanto tale situazione “si confi gura come un pregiudizio di mero fatto, potendo essi fare pur sempre affi damento sulla capacità del debitore di ricostruire in futuro un patrimonio aggredibile” (Cass., sez. I, Sent., 29/07/2011, n. 16738).

Cautele per il trasferimento dei beni – Al fine di una corretta formulazione della proposta, che eviti rischi per i creditori, deve tenersi presente che l’effetto traslativo dei beni in favore dell’assuntore coincide, in linea di massima, con la definitività del decreto di omologazione, assumendo eventuali ulteriori atti necessari a formalizzarlo natura meramente esecutiva (di recente: Cass., sez. VI – 5, ord., 02/02/2018, n. 3286), per cui, se l’obbligazione dell’assuntore non è effi cacemente garantita, è opportuno prevedere come patto di concordato il differimento di tale effetto all’avvenuto adempimento (come ritenuto possibile, tra le altre, da Cass., sez. III, sent., 30/08/2011, n. 17790; Cass., sez. I, sent., 01/03/2010, n. 4863; Cass., sez. I, 28/02/2007, n. 4766).

Il concordato in continuità aziendale

Definizione della continuità aziendale – Secondo l’art. 186-bis la continuità aziendale sussiste quando il piano di concordato prevede: a. la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore; b. la cessione dell’azienda in esercizio; c. il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione. Si ha dunque riferimento alla circostanza che l’attività aziendale non venga meno, indipendentemente da eventuali mutamenti della titolarità dell’azienda e delle modifiche della forma giuridica del soggetto che esercita l’attività. 

Prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore – Si verifica quando il debitore opera in modo che l’attività prosegua rimanendo egli titolare della proprietà dell’impresa fi no alla fase di esecuzione del concordato. La prosecuzione dell’attività da parte del debitore può assumere la forma della continuità diretta o quella della continuità indiretta.

Continuità diretta

Il debitore prosegue senza alcuna modifica in ordine alla titolarità e responsabilità della gestione dell’impresa che prosegue nella sua attività anche dopo il deposito della domanda di concordato e fino all’esecuzione della proposta. È a questa specifica ipotesi che si riferisce l’obbligo di cui alla lett. a) del comma 2 che impone che nel il piano sia contenuta anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura; in sostanza è necessaria l’esposizione dei costi e dei ricavi attesi e della tempistica dei flussi finanziari in modo da poter valutare la sostenibilità della continuità. È assolutamente necessario che il piano motivi diffusamente ed esaurientemente sul punto che comunque deve essere anche oggetto della valutazione e della conferma da parte dell’attestatore. La continuità diretta può proseguire senza soluzione fino alla completa esecuzione del concordato oppure può cessare per passaggio alla continuità indiretta (es.: affitto dell’azienda) oppure per intervenuta cessione dell’azienda, sempreché la cessione o l’affitto non interessino uno o più rami e la gestione diretta prosegua per altri.

Continuità indiretta

Si ha continuità indiretta allorquando l’azienda rimane di proprietà dell’imprenditore debitore ma viene gestita da terzi in forza di contratti che attribuiscono la gestione, quali l’affitto o il comodato. Tali contratti debbono comunque avere un orizzonte temporale che non vada oltre il termine della fase esecutiva del concordato in quanto l’esito finale non può che essere quello previsto dall’art. 186-bis, comma 1: continuazione della gestione da parte dell’imprenditore, cessione dell’azienda in esercizio, conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società. Si ritiene che con riferimento alla fase di continuità indiretta non sia necessario che il piano si spenda per illustrare la sostenibilità del progetto aziendale in quanto ciò che rileva ai fini del concordato è l’affidabilità del terzo che assume la gestione in ordine ad eventuali pagamenti contrattualmente previsti e al mantenimento del valore dell’azienda. Anche la fase di continuità indiretta deve cessare, sia che a condurla sia il primo affidatario sia che altri sia subentrato nella gestione in virtù di nuovo contratto (eventualmente in esito a procedura competitiva ex art. 163-bis) prima del termine della fase esecutiva del concordato. Ciò può avvenire o con la restituzione della gestione al debitore imprenditore, o con il subentro di altro imprenditore in esito a cessione di azienda oppure per conferimento dell’azienda in altra società.

Cessione dell’azienda

Benché il piano preveda la cessione dell’azienda, il concordato viene considerato in continuità aziendale se l’azienda viene ceduta quando è ancora in esercizio e quindi esce dal patrimonio del debitore senza alcuna interruzione dell’attività, in quanto ciò che deve essere assicurato, nell’intenzione della legge, è appunto la continuità dell’attività e non già dell’identità della proprietà, che può quindi passare dal debitore ad altro soggetto. Anche in caso di cessione nel piano, la sostenibilità della continuità deve essere dimostrata fi no al tempo previsto per la cessione, in quanto dal momento in cui questa avviene le sorti economiche del progetto imprenditoriale non riguardano più i creditori per i quali rileva solo il prezzo della cessione.

Conferimento

La terza forma in cui può essere proposto un piano affinché il concordato possa essere qualificato in continuità aziendale, è quella in cui è previsto il conferimento dell’azienda in continuità aziendale in altra società, sia questa già esistente, sia questa una società di nuova costituzione. Anche in questo caso, la sostenibilità della gestione deve essere dimostrata nel piano di concordato fino alla data del conferimento, dal momento che il rischio imprenditoriale si trasferisce ad altro soggetto e non grava più sul debitore e, di riflesso, sui creditori. Questa forma di concordato è normalmente finalizzata ad attribuire ai creditori quote o azioni della società conferitaria; l’affidabilità di quest’ultima e quindi, in definitiva, le sue prospettive rilevano allora unicamente ai fini del giudizio di convenienza che debbono formulare i creditori all’atto della votazione, comparando il valore, anche prospettico, delle azioni o quote loro attribuite con il presumibile esito della liquidazione fallimentare.

Concordato misto

Definizione – Per concordato misto si intende attualmente quello in cui il piano prevede che il soddisfacimento dei creditori avvenga utilizzando in parte i flussi derivanti dall’esercizio dell’attività di impresa e in parte il ricavato della cessione dei beni non funzionali alla continuità, come espressamente consente l’art. 186-bis che, ribadendo al comma 1 le possibili conformazioni del concordato in continuità aziendale (la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione), aggiunge che: ‘’Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa’’, intendendosi per tali quelli non funzionali all’attività come eventualmente riprogrammata nel piano.

Prevalenza – Benché la norma non ne rechi traccia, si è fatta strada nella giurisprudenza di merito, l’interpretazione secondo cui perché il concordato misto possa qualificarsi come connotato dalla continuità è necessario che il soddisfacimento dei creditori avvenga per la maggior parte grazie ai flussi assicurati dall’esercizio dell’impresa in quanto, diversamente e quindi se prevalesse il ricavato della liquidazione dei beni non funzionali, il concordato avrebbe carattere liquidatorio e quindi sconterebbe la necessità che venga assicurata la percentuale del 20% di soddisfacimento dei crediti chirografari (contrario a tale tesi Trib. Massa 29/09/2016; favorevole Trib. Monza 26/07/2016). Ferma restando la criticabilità della soluzione che è contraria alla ratio della preferenza del sistema per la soluzione che consente la sopravvivenza dell’azienda, in quanto comporta il rischio della dissoluzione dell’azienda che pure potrebbe ritornare a competere nel mercato, ma che non produce flussi di valore superiore al patrimonio liquidato, deve quantomeno ascriversi alla continuità e non alla liquidazione il ricavato della cessione di tutto quanto è frutto dell’attività di impresa, anche se prodotto prima dell’apertura del concordato (il c.d. magazzino). È opportuno aggiungere che è in ogni caso necessaria la nomina del liquidatore per la dismissione con le necessarie procedure competitive dei beni non funzionali (così il Trib. Roma 31/07/2016).

Il concordato può assumere forme diverse a scelta del proponente. 

Crediti prededucibili

Sono i crediti definiti nell’art. 111, comma 2 e quindi quelli così definiti dalla legge nonché quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla legge fallimentare. Si discute se la prededuzione sia una categoria che rileva anche nel concordato preventivo o se sia rilevante solo in caso di successivo fallimento. Una qualità che certamente i crediti prededucibili hanno, che rileva anche nel concordato, e cioè quella di non poter essere oggetto di una previsione diversa da quella dell’integrale e regolare pagamento e quindi: pagamento dell’intero importo dovuto; pagamento alla scadenza prevista che può essere anche differito nel tempo (es. rate di mutui per finanziamenti in funzione, in corso o in esecuzione del concordato); pagamento in denaro. Ogni diversa proposta sarebbe causa di inammissibilità della domanda. 

Crediti privilegiati

Sono i crediti assistiti dal diritto di prelazione sull’intero patrimonio (privilegi generali) o su singoli componenti dello stesso (privilegi speciali). Il proponente è vincolato, se non propone diversamente, all’obbligo di soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati. Tali crediti, tuttavia, possono trovare capienza sul valore dei beni sui quali grava il privilegio, oppure detto valore può essere inferiore rispetto a quello del credito garantito. Nel primo caso (crediti su beni capienti) la proposta non può che essere quella di pagamento integrale. Nel secondo caso (crediti su beni incapienti) il pagamento deve essere integrale se il proponente nulla dice sulla misura del pagamento, ma può essere anche proposto un pagamento in percentuale, purché questo non sia previsto in misura inferiore all’importo che sarebbe realizzabile dal singolo creditore in caso di liquidazione, tenuto conto della causa e quindi del grado del privilegio e del valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti su cui grava il privilegio quale risultante da una relazione giurata di un professionista avente i requisiti di indipendenza e professionalità indicati nell’art. 67, comma 3, lett. d). La quota di credito privilegiato eccedente quella da pagarsi integralmente, in quanto di valore pari a quello del bene costituente garanzia, è parificata ai crediti chirografari e quindi può essere soddisfatta in percentuale.

Crediti chirografari 

Sono quelli non assistiti da causa di prelazione che possono essere pagati sia in percentuale che dilazionati nel tempo. È comunque necessario un grado di soddisfacimento non irrisorio e corrisposto in un tempo ragionevole (vedi oltre). 

Crediti postergati 

Sono crediti che possono essere sia privilegiati che chirografari che però possono essere soddisfatti solo dopo l’avvenuto soddisfacimento degli altri creditori.

Crediti con postergazione legale(omissis)

Crediti con postergazione volontaria – (omissis)

LE  CLASSI DI CREDITORI – (omissis)

La causa in concreto 

In un importante arresto la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sulla vexata quaestio dei limiti di valutazione del tribunale sulla fattibilità economica del piano, ha indicato alcuni requisiti generale, e quindi validi per ogni tipologia di concordato, che deve avere la domanda di concordato (intesa come complesso del piano e de della proposta) perché possa essere ritenuta meritevole di valutazione da parte dei creditori e quindi ammissibile: 

a. che lo svolgimento del procedimento avvenga nel rispetto delle indicazioni del legislatore, vale a dire consentendo ai creditori, dapprima, di votare avendo conoscenza (o avendo avuto modo di conoscere) di tutti i dati a tal fi ne necessari e, quindi, di esprimere le eventuali riserve nel giudizio di omologazione; 

b. che la conseguente definizione si realizzi con il raggiungimento della duplice finalità perseguita con l’instaurazione della detta procedura, consistenti nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore (che comunque in tal modo così definisce la sua parentesi commerciale negativa), da una parte, e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti (significativo in tal senso la l. fall., art. 181, che stabilisce un breve termine di definizione suscettibile di una sola proroga), dall’altra.

Superamento della crisi dell’impresa – La questione è già stata affrontata nel senso che per superamento della crisi dell’impresa si intende una soluzione che comporti il soddisfacimento di tutti i crediti, non necessariamente in modo integrale, mediante una delle forme di concordato già esaminate (liquidatorio, in continuità, con assuntore, misto, ecc.) con conseguente esdebitazione del debitore per la parte di debito eventualmente non soddisfatto.

La percentuale minima di soddisfacimento – La questione è ancora attuale anche se per i concordati non in continuità deve essere ‘’assicurata’’ la percentuale minima del 20% in quanto, per chi ritiene che assicurare non significhi l’assunzione di un’obbligazione, ma l’esposizione di elementi di fatto che facciano ritenere pressoché certo il raggiungimento di tale percentuale, la risoluzione del concordato potrebbe essere pronunciata solo se i creditori non ottengono un soddisfacimento non irrisorio. In ogni caso il problema si pone per i concordati in continuità aziendale per i quali la regola del 20% non si applica. Secondo la citata sentenza il grado di soddisfacimento deve dunque essere ‘’non minimale’’ e quindi non irrisorio. La giurisprudenza di legittimità non individua percentuali concrete e nemmeno indica se la misura “non minimale” consista in una misura fissa per ogni procedura o debba essere individuata in base al caso concreto (così il Trib. Lecco, Sez. I, 10/07/2015). Unanimità di interpretazioni non si rinviene nemmeno nella giurisprudenza di merito che ha individuato come ammissibili percentuali del 3% o del 5% (Trib. Pistoia, sez. fall., 29/10/2015) ma, condivisibilmente, irrisoria una percentuale dello 0,03% (Trib. Roma 16/04/2008).

Il tempo ragionevole di esecuzione del concordato – Anche per questo parametro la giurisprudenza di legittimità non fornisce dati numerici, ma è diffusa l’opinione nella giurisprudenza di merito che la fase esecutiva di un concordato liquidatorio debba concludersi in un arco temporale non superiore al triennio mentre un concordato in continuità aziendale debba concludersi nell’ambito del quinquennio. A tale soluzione si perviene in base alla considerazione che la normativa sulla responsabilità risarcitoria dello Stato per l’irragionevole durata dei procedimento (c.d. Legge Pinto) prevede come termine ragionevole per l’esecuzione singolare quello dei tre anni e come termine ragionevole per la procedura fallimentare quello dei sei anni, tenendo però conto, quanto a quest’ultima tipologia, che la scienza aziendalistica ritiene sufficientemente attendibile un piano se formulato in vista di un orizzonte temporale non superiore a tre/cinque anni, così che un’attestazione di fattibilità di un piano di durata superiore non sarebbe idonea a supportare una domanda di concordato.

La necessità che l’oggetto della proposta sia economicamente valutabile 

Per completezza di esposizione e di informazione deve ricordarsi che l’ultima parte della lett. e) del comma 2 dell’art. 161, dispone che “in ogni caso la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”. Tale disposizione, che è stata interpretata come conferma della necessità di assumere una precisa obbligazione in relazione alla percentuale proposta, ma che, se così fosse, sarebbe ultronea visto che una percentuale è di per sé indicativa di un valore economico, significa che qualunque modalità satisfattiva diversa dal denaro venga proposta non deve essere vaga quanto al risultato concreto, ma deve essere definita nella sua identità e non può essere modificata. Questo riconoscimento della possibilità di soddisfacimento con le modalità più svariate purché precisamente definite ed economicamente valutabili quanto al risultato apre la strada al riconoscimento anche nel nostro ordinamento delle c.d. classi a costo zero e quindi a proposte che non consistono nell’attribuzione immediata di un’utilità derivante dalla liquidazione del patrimonio o dai flussi dell’attività ma, ad esempio, dall’istaurazione di un rapporto contrattuale dal quale il creditore possa ricavare un risultato economico certo, quale un rapporto di fornitura a prezzi e durata definiti. 

 (Altalex, 1°marzo 2019)

 

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