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Nel suo mondo, un centesimo non è solo un centesimo, bensì una goccia destinata a diventare, prima o poi, un milione di gocce. Parte sempre dal basso Muhammad Yunus, bengalese, sorriso rassicurante, un gilet color panna, un Nobel per la Pace in una tasca e nell’altra le chiavi della GramEen, la banca attorno all’uomo. Senza clamore, con la sua cassa del villaggio ha concesso un’opportunità a 9 milioni di persone, il 97 per cento delle quali donne, prestando loro piccole somme di denaro e ottenendo, in cambio, un tasso di restituzione che non è mai sceso sotto il 98 per cento. Il suo segreto? Mettere l’essere umano al centro di tutto, con uno sguardo ai giovani, l’altro alla sostenibilità.

Professor Yunus, l’uomo al centro e l’economia che gli gira intorno può essere una formula che allarga il concetto di business verso un sistema che insieme alla tutela dell’ambiente esalti anzitutto l’uomo?
«In questo momento c’è poco di etico nell’economia così com’è: esiste una misurata considerazione per l’essere umano in quanto tale. Se l’1 per cento della popolazione mondiale detiene il 99 per cento della ricchezza del pianeta siamo di fronte a un sistema da dover ricalibrare».

Anche per questo dal 2002 sta conducendo una battaglia contro la disuguaglianza?
«Abbiamo attirato l’attenzione sulla disuguaglianza e dimostrato che la povertà deriva da un sistema da correggere. Abbiamo proposto un’alternativa a un sistema bancario troppo concentrato sul profitto, soprattutto per aiutare le persone estremamente povere e le donne».

Che cosa non va nel sistema bancario tradizionale?
«Ho dimostrato che c’è un altro modo di intendere gli affari e il mondo dell’economia. È quello del social-business, far partecipare più persone possibili alle mutazioni e allo sviluppo di un settore ancora riservato a pochi. In questo senso ho grande fiducia nella gioventù».

Sembra quasi che la parola business abbia acquisito un’accezione negativa.
«Sono convinto che le imprese oltre a fare business, a fare semplicemente affari, possano sostenere parallelamente lo sviluppo sociale e questo significa che il surplus generato dalle attività parallele può essere reinvestito. Un modo per creare ulteriore economia e quindi ridistribuire le forze per il benessere sociale. Quando si critica il business model tradizionale si tende a dire che questo modello procurerà guai a tutti. In parte questo ragionamento è sbagliato. E tuttavia gli sprechi sono evidenti così come i problemi procurati all’ambiente, che sono emergenze concrete dalla cui soluzione non si può più prescindere».

Si riferisce alla gestione dei rifiuti?
«Non possiamo permetterci di avere una società piena di rifiuti. Continuiamo a produrre rifiuti e poi a cercare metodi per ottenere nuove risorse. Non funziona. Dobbiamo trovare il modo di riciclare quello che produciamo in modo da migliorarlo e preservarlo. Per non parlare della nostra salute, che viene messa seriamente a rischio».

Ma come si fa a rinunciare per esempio alla plastica?
«Si tratta di creare efficaci metodi di riutilizzo senza disperdere questi rifiuti nell’ambiente. Il problema è capire come possiamo evitare che finisca nelle discariche e negli oceani rendendo impossibile per noi la sopravvivenza; e ancora, come possiamo far sì che la plastica, di cui pure abbiamo bisogno, sia reimmessa nel ciclo produttivo. Dobbiamo cercare il modo di non gettare le cose nel cestino dei rifiuti, ma di riutilizzarle nel ciclo produttivo in modo che il mondo ne guadagni piuttosto che ne venga danneggiato».

Anche Papa Francesco si è lanciato in favore di una battaglia ambientale, ritiene che le sue parole possano portare a risultati importanti?
«Le parole di Papa Francesco non sono per i cristiani, ma si rivolgono a tutto il mondo perché non parlano di religione, ma dell’uomo e del pianeta. La sua posizione riguardo al riscaldamento globale o al disastro dell’Amazzonia, è molto importante».

Un modo per intervenire può essere partecipare al Francesco economy, l’evento voluto dal Papa dal 26 al 28 marzo e rivolto agli under 35.
«Ho grande fiducia nei giovani: loro hanno il potere di cambiare le cose perché hanno la tecnologia e tutte le premesse per fare bene. Questo è il proposito delle tre giornate che nel 2020 saranno dedicata alle nuove generazioni e a cui parteciperanno migliaia di ragazzi provenienti da oltre 45 paesi».

A proposito di giovani, internet che ruolo ha in questo processo di cambiamento e consapevolezza?
«Internet, in quanto tecnologia, ci aiuta a raggiungere quello che vogliamo. Se non vogliamo cambiare il mondo, Internet non ci aiuterà in questo direzione. In questo contesto possiamo dire che il ruolo della tecnologie è quello di far fare soldi, ma oggi i giovani sono più educati al cambiamento, possono fare meglio e mutare la direzione del sistema convenzionale di pensare proprio attraverso le tecnologie».

Un concetto che alcune settimane fa lei ha ribadito dalla terra di San Francesco che ha dedicato tutta la sua vita a combattere la povertà…
«In qualche modo, sento la frustrazione che il Santo ha sentito per non essere riuscito a cambiare un sistema che permettesse di eliminare la povertà. Dobbiamo salvare il pianeta comprendendo che non può essere solo il profitto, pur importante, la forza motrice che spinge le nostre azioni, ma la condivisione con gli altri deve essere alla base in tutte le nostre azioni».

Il suo impegno per diffondere il microcredito, in particolare modo nel mondo femminile è ovviamente una tappa di tale battaglia. Che risultati sta dando?

«C’è ancora molto da fare. Abbiamo soltanto dimostrato nel migliore dei modi che è un obiettivo raggiungibile. Prestando questi soldi alle donne, e trasferendo l’esperienza del microcredito anche negli Stati Uniti, America Latina, Africa, abbiamo dato un esempio importante. Dal quale ormai non si può più prescindere. Perché nel 99 per cento dei casi quel prestito ha prodotto qualcosa di buono, un esempio di economia circolare».

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