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Continuano a proliferare e a invadere il centro storico. Aumentano a dismisura rendendo i condomini degli alberghi. Per alcuni rappresentano la nuova frontiera della sharing economy. Per altri sono il prodotto di una logica che considera le città merce da vendere ai turisti. Tra le Mura capitoline la realtà degli affitti brevi si sta espandendo sempre di più. E sta mostrando le sue criticità.

Airbnb, la piattaforma americana che gestisce miliardi di appartamenti, è accusata di spogliare il centro città dei suoi residenti e di provocare il rincaro dei prezzi negli immobili. Ma per molti cittadini è una fonte di sostentamento non indifferente: una nuova occupazione che non richiede una particolare qualifica e che attrae proprio perché non sembra abbastanza regolamentata (soprattutto al livello fiscale). Infatti, nonostante si stiano diffondendo aziende che lucrano sul mercato degli affitti brevi, i controlli sono pochi e la legislazione, che è di competenza regionale, risulta poco utile nella limitazione del fenomeno.

 


L’immagine del centro storico di Roma su Inside Airbnb 

 

Espansione e trasformazione – Negli anni, come a Firenze e a Venezia, nel centro storico della Città eterna sempre più proprietari hanno deciso di guadagnare gestendo i propri alloggi come piccoli B&B. In gergo tecnico si chiamano locazioni turistiche, perché a differenza degli alberghi o dei Bed and Breakfast non forniscono alcun servizio aggiuntivo (colazione o pulizia giornaliera ad esempio). Guardando su Inside Airbnb, il sito dove vengono monitorati gli affitti brevi in tutte le città del mondo, il centro storico di Roma appare come una costellazione di puntini rossi. Nelle zone che circoscrivono Trastevere, Rione Monti e il Colosseo sono segnalati quasi 15 mila appartamenti (su 29mila disponibili in tutta la Capitale). Nel 2017 erano meno di 12mila. Questo vuol dire che in soli due anni sono comparse altre 3mila abitazioni. 

I numeri aumentano, quindi. E allo stesso tempo, come accaduto già in altre città, Airbnb cambia la sua natura. Se inizialmente i proprietari mettevano a disposizione degli ospiti una stanza dell’appartamento in cui abitavano, adesso è diventato sempre più di moda pubblicare annunci su interi alloggi: case di proprietà non utilizzate che prima venivano date stabilmente a una famiglia. Alessandro lo fa da 5 anni. Tra meno di 360 giorni andrà in pensione: lascerà la sua attività di export manager e si dedicherà a tempo pieno ai suoi Airbnb. “Ho tre appartamenti che ho ereditato da mia madre. Tutti quanti nel centro storico”. Prima li affittava con contratti di locazione piuttosto lunghi. “Poi però – racconta ad Huffpost – ho capito che su Airbnb avrei guadagnato di più e che non correvo il pericolo di non ricevere il pagamento dagli inquilini”. In pochi anni ha triplicato i ricavi: “Guadagno 60mila euro l’anno. Il vero problema dell’edilizia romana non sono gli affitti brevi. Ma gli affittuari che non pagano”.

In tanti la pensano come Alessandro: con Airbnb si guadagna di più e ci sono meno rogne. Nel centro storico di Roma, infatti, circa il 70 per cento degli annunci disponibili sulla piattaforma riguarda interi appartamenti. L’offerta di stanze da occupare per un breve pernottamento è del 29 per cento: sono meno di 5mila. “Oramai quasi più nessuno ospita a casa propria condividendo gli spazi comuni”, spiega Sarah Gainsforth, autrice del libro “Airbnb città merce”.

 

MoreISO via Getty Images

MoreISO via Getty Images 

 

Affitti più cari – La trasformazione della piattaforma ha posto in essere alcuni problemi: sia per i ricavi sempre più ingenti che i proprietari ottengono sia per la drastica riduzione del numero di abitazioni utilizzabili per locazioni di lungo periodo. Due ragioni strettamente legate l’una all’altra e all’aumento del numero di appartamenti sul mercato degli affitti brevi. Se le case disponibili su Airbnb sono sempre di più, salgono i guadagni dei singoli host e allo stesso tempo, visto che l’offerta si riduce, crescono i prezzi degli immobili da affittare stabilmente. Secondo uno studio redatto dagli economisti Kyle Barron, Edward Kung e Davide Proserpio, dell’Università della California Los Angeles, nelle zone in cui l’offerta del servizio di home sharing aumenta del 30 per cento il prezzo medio del canone di locazione raddoppia. Se prima era 700 diventa 1400. 

“Questo è un problema soprattutto per il ceto medio” dice Gainsforth. Un problema che diventa anche più serio se si tiene in considerazione che questi locali in media sono vuoti per 240 notti all’anno. Il che vuol dire che 14mila appartamenti sono occupati solo 1 sera su 3. Intanto, studenti e famiglie continuano a cercare una casa dove poter abitare e, non trovandola, si spostano sempre di più verso le periferie. 

Meno residenti – I prezzi salgono, quindi, i turisti (che a Roma nel 2018 sono stati circa 13 milioni) aumentano e i residenti diminuiscono. Gli esperti la chiamano ‘gentrificazione’. “Nelle zone come Rione Monti è in atto una vera e propria guerra di trincea. Da una parte ci sono i cittadini, dall’altra i milioni di viaggiatori che vengono a visitare Roma ogni anno”, spiega ad Huffpost Carlo Cellamare, professore di urbanistica alla Sapienza. Diminuendo i cittadini, i quartieri del centro storico stanno perdendo la propria identità: “Si costruisce una tipicità artificiale. Si tende a estremizzare per attrarre i turisti”, continua Cellamare. Proliferano ristoranti che propongono “spaghetti pasta” in tutte le salse e bancarelle che vendono “artigianali” miniature del Colosseo.

 

piola666 via Getty Images

piola666 via Getty Images 

 

La tassazione – Quanto detto fino a qui, però, rappresenta soltanto una parte dei problemi connessi all’exploit di Airbnb. Le criticità evidenziate negli anni riguardano anche gli aspetti contributivi e fiscali. “Insieme alla cultura degli affitti brevi, si è diffusa la morosità”, spiega la Gainsforth. Dal 2017 per tutti gli appartamenti utilizzati come affitti brevi, che si tratti di case di proprietà o di case altrui, Palazzo Chigi ha imposto la cedolare secca, che prevede il pagamento del 21 per cento sui guadagni annuali.

Nell’idea iniziale, Airbnb avrebbe dovuto versare i contributi in modo da fornire informazioni dettagliate sugli host e sui loro redditi. Ma la piattaforma statunitense si è rifiutata aprendo una battaglia legale con lo Stato Italiano. Il motivo? Se avesse incominciato a operare come sostituto d’imposta avrebbe dovuto pagare anche le tasse al Fisco. Per ora, quindi, sono i singoli proprietari a dichiarare quanto guadagnano e a pagare le tasse. Potrebbero dire il vero o il falso. In entrambi casi difficilmente sarebbero scoperti. “La situazione è molto confusa e non ci sono abbastanza controlli. Moltissimi proprietari non dichiarano praticamente nulla” , chiarisce ad Huffpost Maurizio Secco, commercialista autore del manuale “La Tassazione delle locazioni Aribnb”. Un Far West? “Riguardo alle imposte sul reddito degli host, siamo impegnati in attività di sensibilizzazione – ci dice la stessa Aribnb – che vanno da pagine informative e email che ricordano ad ognuno gli adempimenti, al sostegno alla creazione di associazioni di host per condividere buone pratiche e informazioni”.

“Non solo dovrebbero aumentare i controlli – continua Secco – ma dovrebbe anche essere fatta una distinzione più marcata e regolata tra occasionali e non”: tra chi quindi affitta un solo appartamento e per poco tempo e chi ha creato un business. Nel centro di Roma i secondi sono molti più dei primi. Sul sito Inside Airbnb è riportato che il 70 per cento degli host (termine con cui si indica chi mette a disposizione un’abitazione sulla piattaforma) pubblica più di un annuncio. Elena, ad esempio, ha 5 appartamenti tra Trastevere e Rione Monti, che affitta a 120 euro a notte. Ma, nonostante i guadagni ingenti, per l’agenzia delle entrate la sua attività non è considerata imprenditoriale: “Rientra nella locazione turistica. Paga la cedolare secca e non è tenuta ad aprire una partita Iva”, spiega ancora Secco. 

 

anyaberkut via Getty Images

anyaberkut via Getty Images 

 

La nuova frontiera – In realtà allora anche se non viene regolamentato come tale, per i numeri che ha il mercato degli affitti brevi nel centro storico di Roma è un vero e proprio business. E lo dimostra anche il proliferare di società che pubblicano e ripubblicano annunci sulla piattaforma. “Oramai ci sono così tanti Airbnb che è facile perdere il conto”, spiega Claudia, host dal 2015. Anche per lei è diventato un lavoro. Ha 24 anni e studia archeologia. Oltre ad amministrare un appartamento di sua proprietà, fa parte di un’azienda che gestisce per conto di terzi case altrui: “Abbiamo all’incirca 20 appartamenti. Vengono smistati tra diversi ragazzi che, come me, si occupano di organizzare l’arrivo degli ospiti, di accoglierli e di spiegargli le regole della casa”. La società prende dai proprietari degli immobili una percentuale sui guadagni e paga a Claudia uno stipendio per lo svolgimento di queste mansioni. “Non siamo mica l’unica azienda a fare una cosa del genere. Ce ne sono molte altre”, dice Claudia. A Roma ad esempio sono attive: Guest Hero e Check in Chek out. Solo alcune delle tante disponibili e meno conosciute. 

“Siamo di fronte all’Arbnb 2.0. Molte società affittano interi palazzi per poi guadagnarci sopra. Anche questo fa salire i prezzi degli immobili”, commenta Gianbattista, 31 anni, host dal 2013. Come si legge nel rapporto redatto da Engel & Völkers, infatti al centro di Roma nel 2019 sempre più abitazioni sono state acquistate per poi essere utilizzate come fonti di reddito. Anche Gianbattista dopo aver amministrato per anni l’appartamento di famiglia ha deciso di aprire un’attività di gestione degli immobili tutta sua. “Attualmente insieme ad altri 5 colleghi abbiamo 5 case”, spiega ad Huffpost. Gianbattista si considera un imprenditore:“Ho anche iniziato a svolgere consulenze per chi vuole cimentarsi negli affitti brevi. Ma ti posso assicurare che nonostante siano passati anni al livello normativo è sempre un deliro”, chiosa Gianbattista.

La regolamentazione – Cosa fare, allora? “Per quanto riguarda le questione fiscale le norme devono essere nazionali. Per il resto, trattandosi di turismo, deve essere la Regione a occuparsene”, spiega il commercialista Secco. Ogni città infatti ha le sue leggi. E questo rende ancora tutto più confusionario. Come fanno sapere dal Comune, a Roma hanno varato un nuovo regolamento che riguarda soprattutto la riscossione automatica da parte della piattaforma online della tassa di soggiorno (senza che siano i singoli host a doverla versare). Un provvedimento che in molte città, come Firenze, era già stato adottato da tempo.

Rimane perciò sempre aperta la questione di come ridurre il numero di alloggi. “In Toscana hanno ufficialmente stabilito che oltre un determinato numero di appartamenti l’attività deve essere considerata imprenditoriale”, commenta Sacco. Nella Capitale per ora non esiste nulla del genere. Le soluzioni potrebbero essere diverse. Basterebbe guardare oltreoceano. Perché non farlo? “È tutto una questione politica”, ammette Sacco.

Airbnb replica: “In un contesto in cui il centro storico di Roma è andato progressivamente spopolandosi nel corso degli ultimi decenni, anche per un tema di vivibilità, Airbnb ha consentito di mettere in sicurezza un patrimonio immobiliare spesso poco valorizzato e oggetto di scarsa manutenzione, ma allo stesso tempo gravato da forti costi.”

 

 

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