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Le prime prenotazioni on line, 50 euro l’una, sono state vendute subito dopo l’annuncio ufficiale: il più lungo tunnel sottomarino del mondo (100 km) sarà scavato dal 2020 sul fondo del Mar Baltico, fra la capitale estone Tallinn e quella finlandese, Helsinki. Lo scaveranno e pagheranno quasi tutto i cinesi: 15 miliardi di euro, più 100 milioni offerti da un’impresa saudita.


L’investimento a oltre 6300 km da Pechino, non è lontano dalla loro «via della seta marittimo-terrestre», che dovrebbe collegare circa 60 Paesi di tre continenti. Uno dei suoi tratti vitali sarà la «via polare della seta», che sfrutterà i mari artici sempre più liberi dai ghiacci grazie al riscaldamento del clima.

La via polare della seta

Oggi da Shangai a Rotterdam, attraverso la rotta tradizionale del canale di Suez, bisogna navigare per 48-50 giorni. Con la via polare scendono a 33. Accorcerà di una settimana anche il viaggio che unisce Atlantico e Pacifico costeggiando Groenlandia, Canada e Alaska, rispetto al passaggio attraverso il canale di Panama. Navi cinesi hanno già collaudato entrambi le rotte. A fine maggio, il vice primo ministro russo Maxim Akimov ha annunciato che anche Mosca potrebbe unirsi al progetto di Pechino.

La Cina è pronta a fare il suo gioco: da una parte marcare la sua presenza commerciale, politica e militare nel mondo, dall’altra sfruttare il sottosuolo dell’Artico. Parliamo del 20% di tutte le riserve del pianeta: fra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino e zinco. Pechino ha già commissionato i rompighiaccio, fra cui – gara appena chiusa – uno atomico da 152 metri con 90 persone di equipaggio, costo previsto 140 milioni di euro. Il più grande al mondo di questo tipo e potrà spaccare uno strato di ghiaccio spesso un metro e mezzo. La Cina ha iniziato anche i test per l’«Aquila delle nevi», un aereo progettato per i voli polari, e sta studiando che cosa può combinare un sommergibile che emerga dai ghiacci.

Un articoletto pubblicato dal «Giornale cinese di ricerca navale», e subito monitorato dagli analisti militari occidentali, spiega: «Sebbene il ghiaccio spesso dell’Artico provveda una protezione naturale per i sottomarini, tuttavia costituisce anche un rischio per loro durante il processo di emersione». Segue uno studio dettagliato sulle manovre da eseguire. Tutte le superpotenze compiono queste ricerche. Però la Cina non è uno Stato artico come la Russia o gli Usa, ma nel 2018 si è autodefinita uno «Stato quasi-artico». Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha risposto qualche settimana fa: «Ci sono solo Stati artici e non artici. Una terza categoria non esiste».

Le attività cinesi in Groenlandia

Pechino tira dritto, soprattutto in Groenlandia, portaerei naturale di fronte agli Usa e al Canada, dove il riscaldamento del clima sta sciogliendo 280 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno. Un dramma mondiale che però agevola l’estrazione di ciò che sta sotto.

Perciò ha acquistato o gestisce con le sue compagnie di Stato i 4 più importanti giacimenti minerari. All’estremo Nord, nel fiordo di Cjtronen, c’è quello di zinco, gestito al 70% dalla cinese NFC, considerato il più ricco della terra. È strategico perché si trova di fronte all’ipotetica «via polare della Seta», quella del passaggio verso Canada e Usa, e perché potrebbe placare la domanda di zinco della Cina, salita del 122% dal 2005 al 2015. Poi c’è il giacimento di rame di Carlsberg, proprietà della Jangxi Copper, colosso di Stato considerato il massimo produttore cinese di rame nel mondo. Il suo ex-presidente è stato appena condannato a 18 anni per corruzione.

La Cina controlla le «terre rare»

Poi ancora la miniera di ferro di Isua (della General Nice di Hong Kong) e infine Kvanefjeld, nell’estremo Sud: una riserva mai sfruttata di uranio e «terre rare», i metalli usati per la costruzione di missili, smartphone, batterie e hard-disk. Kvanefjeld, che è accessibile solo via mare, è proprietà della compagnia australiana Greenland Minerals Energy e al 12,5% della compagnia di Stato cinese Shenghe Resources, considerata la maggiore fornitrice di «terre rare» sui mercati internazionali. Con un investimento da 1,3 miliardi di dollari il giacimento potrà fornire una delle più alte produzioni al mondo di «terre rare». La quota azionaria della Shenghe è limitata, ma il suo ruolo nel progetto no, perché il prodotto estratto da Kvanefjeld sarà un concentrato di «terre rare» e uranio, i cui elementi dovranno essere processati e separati, e questo accadrà soprattutto a Xinfeng, in Cina, dove gli stabilimenti sono già in costruzione. Nel progetto c’è anche un nuovo porto, nella baia accanto al giacimento. La Cina possiede già oltre il 90% di tutte le «terre rare» del mondo, dunque ne controlla i prezzi. Con quel che arriverà da Kvanefjeld, chiuderà quasi il cerchio. Nei lavori del porto è coinvolto anche il colosso di Stato cinese CCCC, già messo sulla lista nera della Banca Mondiale per una presunta frode nelle Filippine. I dirigenti della Shenghe, nel gennaio di quest’anno, hanno formato una joint-venture con compagnie sussidiarie della China National Nuclear Corporation.

Aereoporti: la CCCC non molla l’osso

La sigla del colosso edilizio CCCC è riemersa nella gara d’appalto lanciata dal governo groenlandese per l’allargamento e la costruzione di tre nuovi aeroporti intercontinentali – a Nuuk, Ilulissat e Qaqortoq – che dovrebbero assicurare all’isola collegamenti diretti con gli Usa e l’Europa. Nel 2018 sei imprese sono state ammesse: l’unica non europea era la CCCC. Ma la sua offerta ha preoccupato gli Usa (nell’isola c’è la base americana di Thule, che può intercettare i missili in arrivo su Washington) e la Danimarca (che ha un diritto di veto sulle questioni che toccano la sicurezza). Così i danesi hanno lanciato all’ultimo momento un’offerta d’oro rilevando un terzo della compagnia groenlandese che appaltava la gara e la CCCC è stata esclusa. Ma lo scorso 5 aprile è stata annunciata una nuova gara per il «completamento» delle piste e dei terminal a Nuuk e Ilulissat, altro affare milionario, e i cinesi hanno tentato di rientrare grazie a joint venture formate con imprese olandesi, canadesi e danesi. I lavori inizieranno a settembre.

Islanda: controllo climatico e spazio aereo Nato

Pechino ha messo a segno un altro successo nordico, questa volta a Karholl in Islanda: l’osservatorio meteo-astronomico battezzato CIAO (China-Iceland Joint Arctic Science Observatory), tutto finanziato dai cinesi. Tre piani, 760 metri quadrati, controlla i cambiamenti climatici, le aurore boreali, i percorsi dei satelliti. E lo spazio aereo della Nato.

Il vice responsabile dell’osservatorio è Halldor Johannson, che in Islanda è anche portavoce di Huang Nubo, il miliardario imprenditore ed ex dirigente del Partito comunista cinese che nel 2012 tentò di comprare per circa 7 milioni di euro 300 chilometri di foreste islandesi, dichiarando di volerne fare un parco naturale e turistico. Anche su quelle foreste passavano e passano le rotte della Nato.





 

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