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Come agire qualora, acquistato un immobile all’asta di un fallimento, ci si avveda che manca un ingresso autonomo? Sussiste la responsabilità del professionista, nominato dal Giudice delegato come perito estimatore, per non aver esattamente indicato tale difetto del compendio poi messo all’incanto?

Ed ancora, come la presenza di un uso civico influenza la proprietà di un bene immobile e così la sua pignorabilità?

Molti gli argomenti interessanti che abbiamo rilevato nella sentenza n. 392 del 15 marzo 2022 emessa dalla Corte d’Appello de L’Aquila.

Acquisto immobile privo di accesso autonomo. La pronuncia

Tizio acquista un immobile facente parte dei compendi posti all’incanto in seno ad una procedura fallimentare in gestione al Tribunale di Avezzano.

Dopo l’acquisto, Tizio, accedendo all’immobile, si avvede che lo stesso è sprovvisto di ingresso autonomo, in quanto vi si poteva accedere unicamente tramite l’appartamento posto al piano inferiore, di proprietà di Caia, Sempronia e Mevio.

Fallita la soluzione di trovare un accordo con gli stessi, Tizio agisce presso il Tribunale di Avezzano domandando che lo stesso, accertata l’interclusione del proprio immobile, imponesse una servitù di passaggio a carico dell’appartamento sottostante di Caia, Sempronia e Mevio, autorizzando poi Tizio ad eseguire le opere necessarie a creare l’accesso (tramite previo esperimento di apposita CTU) e stabilendo un’indennità da corrispondere ai tre comproprietari del piano di sotto, quali titolari del fondo servente.

Rammentiamo, per l’utilità del lettore, che, in tema di servitù, cioè di pesi imposti alla proprietà, il fondo a favore del quale viene posta la servitù (che ne trae godimento) viene detto ‘dominante’, mentre l’altro fondo, che viene gravato dalla servitù, viene detto ‘servente’.

Tizio cita nel medesimo giudizio anche l’Ing. Filano, perito estimatore nella procedura da cui scaturì l’asta alla quale fu venduto l’immobile in parola, ritenendolo responsabile dei danni derivati dal mancato utilizzo dell’immobile a cagione della mancata specifica evidenza del ‘difetto’ dello stesso.

Si costituivano Caia e Sempronia e l’Ing. Filano, mentre Mevio rimaneva contumace, tutti domandano il rigetto delle domande di Tizio.

Il Tribunale di Avezzano, svolta la CTU:

  • disponeva la costituzione della servitù di passaggio secondo le indicazioni del CTU
  • disponeva il pagamento di un’indennità pari ad € 10.000,00 in favore di Caia, Sempronia e Mevio
  • poneva a carico delle parti le opere di creazione dell’accesso, gli allacci e gli oneri connessi
  • condannava Caia e Sempronia alle spese di giudizio a favore di Tizio
  • condannava Tizio alle spese di giudizio a favore dell’Ing.

    Filano

  • condannava Caia e Sempronia al risarcimento del danno a favore di Tizio per il mancato godimento dell’appartamento

Propongono appello Caia e Sempronia, con la costituzione anche di Mevio, contumace in I°, chiedendo:

  • di accertare e dichiarare la presenza di un uso civico sugli immobili oggetto di causa e la conseguente inefficacia del decreto di trasferimento del Tribunale di Avezzano avente ad oggetto l’immobile acquistato da Tizio all’asta
  • di conseguenza, dichiarare la carenza di legittimazione attiva di Tizio e l’improcedibilità / inammissibilità della sua domanda
  • di sospendere il giudizio di appello, in attesa della pronuncia nel procedimento avviato da Caia, Sempronia e Mevio dinnanzi al Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici della Regione Abruzzo
  • di accertare l’inefficacia del titolo di proprietà dell’immobile di Tizio a causa della mancata continuità delle trascrizioni antecedenti quella relativa alla sentenza di fallimento (da cui aveva avuto origine la procedura fallimentare che aveva poi portato all’incanto in cui fu venduto l’immobile acquistato da Tizio)
  • di conseguenza, di dichiarare la carenza di legittimazione attiva di Tizio e quindi l’improcedibilità / inammissibilità della sua domanda
  • di riformare la sentenza di I°, rigettando la domanda attorea e, in subordine, rinnovare la CTU per stabilire una servitù di passaggio alternativa (cioè, con modalità meno invasive del fondo servente)
  • di condannare Tizio al pagamento delle spese di I° e II°

Tizio, costituitosi in appello, chiedendo il rigetto delle domande avverse, svolge appello incidentale, instando affinché la Corte condanni a titolo di responsabilità aquiliana o per inadempimento l’Ing.

Filano o, in subordine, che lo condanni a titolo di responsabilità concorsuale nella determinazione dell’errore di fatto che indusse Tizio ad acquistare l’immobile, con condanna alla refusione dei danni.

Si costituisce l’Ing. Filano, che solleva l’inammissibilità dell’appello incidentale, data l’assenza di notifica dello stesso nei suoi confronti, mentre chiede di dichiarare inammissibile la domanda di risarcimento in via concorrente in quanto in violazione del divieto dei nova in appello (cioè, in quanto domanda nuova, mai proposta da Tizio in I° e, quindi, non facente parte dell’oggetto del giudizio di prime cure).

Vediamo cosa ha deciso la Corte d’Appello de L’Aquila.

Anche chi acquista all’asta è obbligato in solido

Usi civici, pignorabilità e giurisdizione competente

Che cos’è un uso civico?

Si tratta di un diritto su determinati beni, di proprietà del Comune, a favore della collettività: detto diritto è inalienabile, imprescrittibile e perpetuo, almeno sino a che non avviene la liquidazione dell’uso civico.

La giurisprudenza ormai costante lo assimila ad un bene appartenente al demanio dello Stato (artt. 822 e 824 c.c.), così che l’uso civico (rectius, il bene su cui grava) non è soggetto ad alienazione, quindi non è commerciabile, ad espropriazione forzata e non è nemmeno usucapibile.

Ciò sembrerebbe ovvio, dato che non posso vendere ciò che non è mio – il bene, in questo caso, è di proprietà del Comune in cui si trova.

Nella fattispecie concreta, le parti dibattono intorno all’argomento, sollevato già in I° da Caia, Sempronia e Mevio (titolari del fondo che sarebbe divenuto servente), i quali sostengono che l’intero edificio in cui si trovano il loro immobile ed anche quello acquistato all’asta da Tizio sia soggetto ad uso civico.

Pertanto, secondo costoro, non essendo l’edificio – e con esso le singole unità immobiliari – alienabile, esso non è assoggettabile ad esecuzione forzata, dal ché discenderebbe la nullità del decreto di trasferimento dell’immobile a Tizio, in quanto avente un oggetto giuridicamente impossibile.

Da qui discenderebbe l’ovvio corollario della mancanza di legittimazione attiva all’azione in capo a Tizio, in quanto egli non sarebbe divenuto proprietario dell’immobile.

Secondo la narrazione degli appellanti, il Giudice di I°, pur ammettendo la presenza di uso civico, sostenne che lo stesso non inficiasse il trasferimento di proprietà a Tizio né la costituzione di servitù, in ciò errando per le considerazioni appena svolte circa l’inalienabilità del bene oggetto dell’uso civico.

A sostegno di quanto affermano, gli appellanti avevano depositato in I° un certificato dell’Ufficio Patrimonio del Comune di Avezzano e nel presente grado producono una relazione tecnica di proprio perito di parte dove si evidenzia che «dal piano di Verifica Demaniale del Comune di Avezzano pubblicato in data…, l’area distinta in catasto al foglio…, p.lla… (ex…) risulta in parte demaniale civica ed in particolare classificata come “terreno oggetto di atti di disposizione”».

Non solo, in I° gli stessi appellanti avevano chiesto una CTU che determinasse la questione ed avevano domandato di integrare il contraddittorio, chiamando in causa sia il Comune di Avezzano che il Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici competente.

Mancando l’autorizzazione alla chiamata, gli stessi avrebbero avviato un giudizio dinnanzi a quest’ultimo organo, pendente al momento dell’appello – di qui, l’istanza di sospensione dell’appello in attesa della decisione del Commissario.

A questa prospettazione si oppone Tizio, rilevando la tardività dell’eccezione circa l’uso civico già in sede di I° e il fatto che l’immobile fosse stato oggetto di varie alienazioni prima di pervenire allo stesso Tizio.

Ora, premesso che, non potendo noi visionare gli atti delle parti di entrambi i procedimenti, non possiamo avere certezza di quanto le stesse affermano, la Corte d’Appello ritiene che l’eccezione relativa all’uso civico sia generica e non contenga la prova dell’esistenza dell’uso civico.

Abbiamo visto sopra, invece, come Caia, Sempronia e Mevio sostengano che il Giudice di I°, implicitamente pronunciando circa l’alienabilità (e pignorabilità) del bene poi aggiudicato a Tizio, abbia ritenuto valida la prova data in quella sede circa la sussistenza dell’uso.

È anche vero tuttavia che l’appello ha un effetto devolutivo, così consentendo al Giudice del II° di rivisitare tutte le questioni affrontate dal suo collega di prime cure (purché inserite dalle parti nei propri atti di appello ed appello incidentale), cosicché dobbiamo ritenere legittima l’indagine della Corte d’Appello circa la prova dell’uso civico.

La Corte, dicevamo, ritiene che difetti la prova in quanto sarebbe stata necessaria una certificazione resa ai sensi della Legge 16 giugno 1927, n. 1766, ottenibile consultando l’Archivio del Commissario per gli Usi Civici, non prodotta da Caia, Sempronia e Mevio.

Sostiene poi la Corte che non sia stata data prova del regime giuridico dello specifico uso civico gravante sull’immobile acquistato da Tizio, cioè se si trattasse di bene soggetto all’affrancazione o di bene facente parte del demanio civico e quindi inalienabile.

Riteniamo, sommessamente, che su questo punto la sentenza non colga nel segno, almeno richiamando la giurisprudenza costante della Corte di cassazione in tema di espropriazione forzata e usi civici, laddove la Corte qualifica i beni immobili soggetti ad uso civico come assimilabili ai beni del demanio, cosicché – parrebbe – non sussiste un diverso regime giuridico, ma l’unico regime dei beni demaniali, non alienabili né pignorabili; inoltre, in questo caso, cioè nel caso di usi civici, è necessario, allo scopo di rendere il bene alienabile (e, così, pignorabile), il provvedimento di liquidazione dell’uso civico, in seguito al quale il beneficiario della c.d. “sclassificazione” diviene titolare di un diritto reale o proprietario del bene e sarà quindi soggetto alla possibilità di vendere o al rischio di vederselo pignorato.

Non solo: l’art. 2 della Legge 1766/1927, menzionata dalla Corte d’Appello, prevede che: «Nel giudizio di accertamento circa la esistenza, natura ed estensione degli usi civici ove non esista la prova documentale, è ammesso qualunque altro mezzo legale di prova purché l’esercizio dell’uso civico non sia cessato anteriormente al 1800» e, recentemente, anche la Cassazione si è espressa sul punto, ribadendo che: «Nel giudizio di accertamento di usi civici, in forza del disposto dell’art. 2 della legge n. 1766 del 1927 e del principio “ubi feuda ibi demania”, la prova dell’esistenza, natura ed estensione di usi esercitati anche posteriormente al 1800 può essere offerta con ogni mezzo istruttorio, mentre per quelli il cui esercizio sia cessato anteriormente al 1800 deve essere data esclusivamente mediante documenti propri del diritto feudale [omissis]» (Cass. ord. 9 settembre 2021, n. 24390).

Nell’ipotesi di specie, poi, si sarebbe creata la paradossale situazione per cui, ove l’uso civico avesse gravato sull’intero edificio in cui erano collocate sia l’unità di Tizio che quella di Caia, Sempronia e Mevio, nessuno di loro avrebbe potuto agire ‘a difesa della proprietà’, trattandosi appunto di beni del demanio del Comune, dovendo invece procedere dinnanzi al Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici, ottenendo dapprima detta liquidazione.

Infine, data la competenza funzionale, cioè esclusiva, del Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici a conoscere di tutte le domande inerenti l’accertamento dell’esistenza degli usi civici, della loro natura e dell’estensione, la Corte d’Appello cita le Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 20 maggio 2020, n. 9280) che hanno rammentato la riserva di giurisdizione a favore del Commissario e non del Giudice ordinario, cosicché la stessa Corte d’Appello, anche volendo, non potrebbe pronunciarsi circa la domanda di accertamento dell’uso civico avanzata da Caia, Sempronia e Mevio.

La Corte d’Appello non può nemmeno sospendere il proprio giudizio, poiché, afferma la stessa, gli appellanti non hanno prodotto prova della causa attivata presso il Commissario per la Liquidazione degli Usi Civici pure dagli stessi menzionata, per cui il giudice d’appello non ha il materiale adatto a decidere rispetto ad una pregiudizialità tra quel giudizio e l’appello di Caia, Sempronia e Mevio.

La responsabilità del perito estimatore

Peraltro, in merito alla responsabilità del perito stimatore, ci poniamo l’ulteriore problema relativo al fatto che anche costui non abbia rilevato la presenza di un uso civico: di recente, in un caso relativo ad un mutuo con ipoteca a favore di istituto bancario, quest’ultimo ha agito nei confronti del Notaio rogante per non aver costui accertato l’assenza di usi civici sull’immobile oggetto di vendita e la Cassazione, in ultima istanza, si esprime così relativamente alla prova dell’uso civico (Cassaz., sentenza 15 febbraio 2022, n. 4911): «benché il loro definitivo accertamento e/o quanto meno il loro censimento da parte degli enti locali, sia normalmente documentato, la certezza dell’inesistenza di usi civici gravanti su un determinato immobile non risulta da appositi registri (potendo essere sempre rivendicata da qualunque interessato mediante azione giudiziaria davanti alla competente giurisdizione speciale) e, dall’altra parte, in quanto possono sussistere incertezze sull’effettiva e concreta incidenza di determinati usi civici in ordine alla commerciabilità di immobili realizzati sulle aree gravate»; come vediamo, nonostante altre sezioni della Corte ritengano gli immobili soggetti ad usi civici inalienabili tout court, altra parte della medesima giurisdizione ritiene, come la Corte d’Appello de L’Aquila, che non tutti gli usi civici importino ugualmente la non commerciabilità del bene.

Circa la responsabilità del professionista, la stessa sentenza della Corte afferma che: «Non è in contestazione il fatto oggettivo che molti dei terreni siti nella zona in cui si trovano i predetti beni siano gravati da usi civici: lo confermano, non solo l’esistenza (rilevata in sede di esecuzione forzata) di tali usi civici in relazione agli immobili oggetto della presente controversia, ma le stesse difese di parte ricorrente, il quale espressamente dà atto che, nei procedimenti di esecuzione forzata che si svolgono sugli immobili siti in tale zona, proprio per l’esistenza di un gran numero di manufatti realizzati su terreni gravati da usi civici, i locali giudici dell’esecuzione (almeno a partire da una certa epoca) incaricano regolarmente gli esperti stimatori di eseguire specifici accertamenti in proposito.

La corte di appello ha ritenuto che la situazione complessiva della zona in cui si trovava l’immobile, almeno nelle sue linee generali, non poteva ritenersi ignota al notaio, in forza della professione dallo stesso svolta in quel territorio.

Di conseguenza, ha affermato che quest’ultimo avrebbe dovuto, per adempiere correttamente alla propria prestazione, con la diligenza professionale dovuta nel caso concreto ai sensi dell’art. 1218 c.c. e dell’art. 1176 c.c., comma 2, svolgere indagini ulteriori rispetto a quelle di natura ipotecaria e catastale, sull’eventuale esistenza di usi civici, quanto meno acquisendo il certificato di destinazione urbanistica del terreno sui cui gli immobili erano stati edificati e/o acquisendo apposita certificazione presso la Regione».

Come viene invece risolta la vicenda in esame da parte della Corte d’Appello de l’Aquila?

Dopo aver rigettato le eccezioni dell’Ing. Filano relative alla mancata notifica a lui dell’appello incidentale (costituendosi in giudizio, aveva di fatto sanato l’eventuale mancata notifica) e l’inammissibilità per nova in appello della domanda di risarcimento in concorso (ritenendola non nuova, dati i medesimi petitum, causa petendi e fatti costitutivi), la Corte ammette che parte della giurisprudenza includa nella previsione dell’art. 64 c.p.c. anche la figura del perito estimatore o esperto stimatore, equiparandolo al CTU, così da ritenerlo responsabile in caso di colpa grave per i danni cagionati nell’esecuzione del suo mandato.

Secondo la Corte, «la relazione di stima è non solo e non tanto lo strumento di determinazione del prezzo di vendita del bene, ma soprattutto il documento informativo con cui si offre in vendita il cespite e su cui si forma il consenso dell’acquirente, per cui può essere liberamente consultata sul sito internet a mezzo del quale ex art. 570 c.p.c. deve essere effettuata la pubblicità commerciale della vendita e può opportunamente essere sottoposta al parere o alla critica di esperti di fiducia dell’acquirente».

Tuttavia, esaminando la relazione dell’Ing. Filano, resa nella procedura fallimentare da cui originò poi l’incanto che aggiudicò il bene a Tizio, la Corte ritiene che detta relazione fosse sì incompleta, ma che contenesse elementi che avrebbero dovuto quantomeno porre sull’avviso il potenziale acquirente; ad esempio, la relazione dell’Ing.

Filano segnalava la non corrispondenza della situazione di fatto con quella catastale ed espressamente descriveva così l’immobile: «l’appartamento oggetto di causa (sub…) risulta disposto al terzo piano, avente al secondo piano un ingresso e relativa scala di collegamento», elementi che Tizio avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, verificare di persona o a mezzo tecnici di sua fiducia prima di determinarsi a offrire.

Ciò non vale ad elidere, secondo la Corte, la colpa semplice del perito estimatore Filano, ma certamente non integra la colpa grave.

Peraltro, dato che Tizio chiede, con il proprio appello incidentale, il risarcimento del danno da mancato utilizzo, quantificandolo come valore locativo dell’immobile, detta domanda risulta inammissibile e comunque non liquidabile, atteso che l’immobile, sino alla creazione dell’accesso autonomo, non poteva essere locato.

La continuità delle trascrizioni non prova la proprietà

Altro motivo di appello, alternativo a quello relativo alla presenza di uso civico, è integrato dall’eccezione, sollevata da Caia, Sempronia e Mevio, relativa alla assenza della continuità di trascrizioni sull’immobile poi venduto all’incanto a Tizio.

Essi sostengono che, siccome né l’Ing. Filano, in sede di perizia estimativa, né il CTU del giudizio di I°, avrebbero rilevato che mancava la trascrizione dell’accettazione di un’eredità antecedente la trascrizione della sentenza di fallimento, il decreto di trasferimento sarebbe inefficace ai sensi dell’art. 2650 c.c. e, pertanto, Tizio non sarebbe divenuto proprietario dell’immobile e non sarebbe legittimato al giudizio.

La Corte d’Appello evidenzia che il periodo ventennale rispetto al quale deve essere prodotta relazione notarile, ai sensi dell’art. 567 c.p.c., relativa ad iscrizioni e trascrizioni sull’immobile oggetto di pignoramento o, nel nostro caso, parte della massa attiva fallimentare da liquidare, decorre a ritroso non dalla sentenza di fallimento, bensì dal decreto di trasferimento, essendo solamente questo ultimo titolo a trasferire la proprietà in capo all’aggiudicatario Tizio.

Pertanto, siccome l’eredità di cui si tratta risaliva al 1995, era al di fuori del campo ventennale di ricerca che perito estimatore e Giudice delegato dovevano attenzionare (ovvero dal 2016, epoca del decreto di trasferimento, al 1996).

Specifica inoltre la Corte che l’art. 2650 c.c. non detta regole sulla validità/invalidità degli atti, ma solo sull’efficacia delle trascrizioni, le quali, a loro volta, avendo carattere dichiarativo e non costitutivo, vanno intese come dirette a risolvere i contrasti tra diversi acquisti di diritti incompatibili sul medesimo bene, secondo la regola per cui l’acquisto o il diritto trascritto per primo prevale su quelli trascritti successivamente ed anche su quelli che, per quanto conclusi prima della trascrizione, siano stati trascritti successivamente alla stessa.

Da qui discende, secondo la Corte d’Appello, che la mancanza di continuità delle trascrizioni non inficia l’acquisto di Tizio, ma potrebbe costituire un problema laddove un terzo avanzasse un diritto in conflitto con quello di Tizio, situazione che non è oggetto del giudizio sottoposto alla Corte.

Sul punto, rammentiamo che illustre dottrina (A.M. SOLDI) nota come la trascrizione di acquisti mortis causa (quindi, la trascrizione dell’accettazione dell’eredità di cui si discute), pure prevista dall’art. 2648 c.c., non vale a dirimere i conflitti tra più aventi causa del medesimo autore e non assolve alla funzione di cui all’art. 2644 c.c., né incide sull’acquisto ereditario, ma mira esclusivamente a garantire la continuità delle trascrizioni regolata dall’art. 2650 c.c.

Aggiunge però la medesima dottrina che se l’acquisto mortis causa non è trascritto, le trascrizioni ed iscrizioni successive sono inefficaci – quindi, non opponibili ai terzi – mentre la trascrizione anche tardiva dell’acquisto mortis causa, ripristinando la continuità interrotta, comporta l’efficacia delle iscrizioni e trascrizioni successive, con effetto retroattivo, a patto che non prevalga l’art. 2644 c.c. – e sempre che non sia prescritto il termine decennale per accettare o rinunziare all’eredità.

Nel caso di specie, pertanto, non riusciamo a comprendere appieno il decisum della Corte d’Appello, perché non sappiamo di più circa l’eredità di cui si fa questione: occorre comunque rammentare, sempre citando la medesima dottrina, che la continuità delle trascrizioni serve a garantire un requisito fondamentale delle espropriazioni immobiliari, cioè la stabilità della vendita forzata ed a tutelare l’aggiudicatario dalla possibile evizione a cura di un terzo che vanti diritti a lui opponibili.

Possiamo solamente osservare che, se la successione si era aperta nel 1995, gli eredi avrebbero avuto tempo 10 anni per accettare o rifiutare e decorso detto termine, l’immobile non poteva essere ritenuto di loro proprietà, bensì quale eredità giacente.

La realizzazione del passaggio coattivo ed il minor danno al fondo servente

Lamentano Caia, Sempronia e Mevio che la CTU del I° avendo previsto la realizzazione di un muro divisorio per l’accesso autonomo con sottrazione di mq 8 (a dire del CTU) al loro appartamento ed a favore di quello di Tizio, avrebbe reso la servitù più gravosa a carico del fondo servente.

Ebbene, pur ritenendo tali osservazioni sensate e ragionevoli, la Corte omette di pronunciarsi qualificandole come tardive, perché sollevate solamente in appello, senza che Caia, Sempronia e Mevio ne avessero menzionato nel I°.

Peraltro, la Corte ‘suggerisce’ agli appellanti di tentare la via dell’art. 1068, ultimo comma, c.c., cioè la domanda di ‘spostamento’ della servitù su altro immobile, anche di proprietà di terzi, che però debbono acconsentire – nel caso di specie, gli appellanti avevano già avanzato l’ipotesi di utilizzare l’appartamento posto al di sopra di quello di Tizio per la creazione del passaggio.

Lamentano ancora Caia, Sempronia e Mevio che la creazione del muro divisorio costituisca, di fatto, una vera e propria espropriazione di parte della loro proprietà; la Corte, rigettando anche tale ipotesi, sostiene che anche in altri casi l’ordinamento ammette vere e proprie ablazioni, cioè sottrazioni, di parti di un immobile allo scopo di costituire una servitù, menzionando l’art. 1038 c.c. (servitù di acquedotto), l’art. 1047 c.c. (appoggio ed infissione di chiuse) e dalla norma che regola la servitù di passaggio, cioè l’art. 1053 c.c., 2° comma.

Così, conclude la Corte, non è escluso che l’indennità che il fondo dominante deve corrispondere al fondo servente possa corrispondere al valore venale del bene nei casi in cui la servitù si traduca nell’occupazione funzionale, strumentale, sebbene parziale, di un bene, come peraltro avvenuto nel caso di specie, dove l’indennità concessa a Caia, Sempronia e Mevio teneva conto della parziale espropriazione.

Invece la Corte non concorda con la statuizione del Tribunale relativa all’accollo delle spese per la realizzazione del muro a tutte le parti, in quanto le stesse devono essere sostenute dal solo Tizio, mentre, ai sensi dell’art. 1069 c.c., le spese di separazione e autonomizzazione degli impianti sono a carico anche del fondo servente, in quanto sono di utilità anche di questo.

Rispetto al risarcimento del danno accordato dal Giudice di prime cure a Tizio ed a carico di Caia e Sempronia a titolo di ristoro per il mancato godimento dell’immobile, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di I°, osserva come lo stesso fosse privo di fondamento, atteso che la sentenza di I° non specifica quale norma sia stata violata dagli appellanti, che non erano obbligati verso Tizio né da un contratto, né per fatto illecito o per norma di legge, a consentire la creazione della servitù di passaggio coattivo, avendo diritto di opporsi giudizialmente a detta costituzione, sopportando i rischi del contenzioso, quindi le refusione delle spese di lite in caso di loro soccombenza, ma non certo le conseguenze del mancato godimento del bene in capo alla controparte per la durata del processo.

 

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