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VENEZIA – Quando fu liquidata nel 2017, Veneto Banca era già decotta. L’ha stabilito definitivamente la Cassazione, con un’ordinanza depositata fra Natale e Capodanno, che respinge il ricorso dell’ex amministratore delegato e direttore generale Vincenzo Consoli contro la dichiarazione di insolvenza del gruppo di Montebelluna, pronunciata dal Tribunale di Treviso nel 2018 e ribadita dalla Corte d’Appello di Venezia nel 2019. Il verdetto era molto atteso in riferimento al terzo filone penale scaturito dal crac: sulla base di questa conferma, infatti, ora potrà essere chiesto il rinvio a giudizio di 12 fra dirigenti, funzionari e consulenti dell’allora istituto di credito, per l’ipotesi di bancarotta fraudolenta, dopo che l’ex “dominus” è stato condannato (finora in due gradi di giudizio) solo per ostacolo alla vigilanza e l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa per 5 imputati è stata prescritta.

LA RELAZIONE
Decisive sono risultate le conclusioni della relazione firmata da Lorenzo Caprio, docente di Finanza alla Cattolica di Milano, a cui i giudici lagunari avevano demandato «accurati ed approfonditi riscontri tecnico-contabili», come sottolinea la Suprema Corte individuando tre punti fermi nell’intricata vicenda. Il primo: il valore di realizzo della “good bank”, cioè del ramo d’azienda depurato dai crediti deteriorati e ceduto a Intesa Sanpaolo, «era negativo, nella migliore delle ipotesi, per l’importo di € 3.863,9 milioni». Il secondo: il valore di realizzo dei crediti non performanti e delle altre attività della “bad bank”, vale a dire del troncone finito in liquidazione coatta amministrativa, «era di € 5.049 milioni, considerando lo scenario più favorevole, mentre l’ammontare delle passività, sempre secondo lo scenario più favorevole era di € 5.969 milioni». Il terzo: lo sbilancio negativo «andava da € 2.285 milioni ad € 920 milioni», ipotesi quest’ultima fatta propria dalla Corte. 
Tutti numeri contestati dalla difesa di Consoli, attraverso un ricorso articolato in 7 motivi, i quali sono però stati ritenuti infondati o inammissibili. A cominciare dal primo, che lamentava la considerazione riservata dai magistrati veneziani anche allo scenario basato su uno sbilancio patrimoniale di 1,761 miliardi, a proposito della cessione per 50 centesimi a Intesa Sanpaolo. Per l’ex ad e dg, «presentando vistose anomalie correlate alla logica politica dell’operazione», quell’importo «non rispecchiava il reale valore di mercato dell’asset». Ma per gli “ermellini” quelle dell’Appello sono «valutazioni non sindacabili». 

LE SPESE

La conferma della sentenza di Venezia fa sì che le spese della consulenza tecnica d’ufficio dovranno essere saldate non solo da Consoli, bensì pure dagli amministratori successivi come l’ex presidente Massimo Lanza, l’ex ad Cristiano Carrus e l’ex commissario Fabrizio Viola, benché del tutto estranei alle contestazioni ed anzi costituiti nel procedimento «al solo fine di dare il loro contributo al corretto accertamento dei fatti», il che però secondo la Suprema Corte li ha resi «parte processuale» sul piano del pagamento. Comunque sia, adesso la Procura di Treviso chiederà il processo per Consoli e gli altri 11, accusati di aver reso insolvente il gruppo distraendo e dissipando 320 milioni. Tesi già respinta dall’avvocato Ermenegildo Costabile: «Non un solo euro è finito nelle tasche del mio assistito come di nessun altro dirigente di Veneto Banca».
 

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