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Con la sentenza n. 10215/2019, pubblicata l’11 aprile scorso, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al valore da attribuire, nell’ambito della verifica dello stato passivo di una società fallita, all’atto di riconoscimento del debito effettuato dall’imprenditore, successivamente dichiarato fallito.

Secondo i giudici di legittimità:

  1. nell’ambito della verifica dello stato passivo non trova applicazione il principio dell’inversione dell’onere della prova di cui all’articolo 1988 del codice civile, secondo il quale “la promessa di pagamento o la ricognizione di un debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale. L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria.”;

  2. l’atto di riconoscimento del debito non è opponibile al fallimento, essendo il curatore un terzo rispetto alla procedura concorsuale e, di conseguenza, incombe sul creditore l’onere di provare sia l’an sia il quantum del credito insinuato;

  3. l’atto di riconoscimento del debito è liberamente apprezzabile dal giudice, al pari di quanto accade per la confessione stragiudiziale.

IL CASO: La vicenda approdata all’esame della Suprema Corte di Cassazione trae origine dalla domanda di ammissione al passivo fallimentare depositata da una banca con la quale quest’ultima chiedeva di essere ammessa al passivo in via di privilegio ipotecario per un credito derivante da saldo di conto corrente, in forza di “atto unilaterale di costituzione di ipoteca volontaria”, autenticato da un notaio.

La domanda veniva rigettata con esclusione del credito richiesto in quanto, secondo il giudice delegato, la documentazione prodotta dal creditore istante era incompleta e priva di data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento. Inoltre, secondo il giudice delegato, ai fini dell’ammissione al passivo, non era sufficiente neanche il riconoscimento del debito rappresentato dall’atto di concessione dell’ipoteca volontaria in quanto non opponibile al fallimento.

La decisione del giudice delegato veniva riformata dal Tribunale in sede di opposizione allo stato passivo promossa dall’istituto bancario. Il Tribunale osservava che il credito fatto valere dalla banca con l’istanza di ammissione al passivo era provato con la produzione dell’atto di ricognizione contenuta nella scrittura privata autenticata dal Notaio, richiamandosi al principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 27406 del 18 novembre del 2008, secondo il quale la “ricognizione di debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo il più limitato effetto di sollevare il creditore dall’onere di provare il proprio diritto. Essa, tuttavia diviene inefficace, siccome priva di causa, ove il debitore (sul quale incombe la relativa prova) deduca e dimostri in giudizio la nullità o l’inesistenza del rapporto obbligatorio“. Per altresì riscontrare, poi, che la “prova della inesistenza o nullità del rapporto obbligatorio, nel caso di specie, non è stata fornita dal fallimento” e l’autentica della firma da parte del Notaio ha valore di data certa della sottoscrizione da parte del debitore poi fallito.

Pertanto, avverso il decreto del Tribunale, il fallimento interponeva ricorso per Cassazione il quale deduceva, fra l’altro, l’erroneità della decisione impugnata per aver il giudice di merito, ritenuto provato il credito della banca attraverso la produzione dell’atto di ricognizione del debito, applicando l’articolo 1988 del codice civile e non l’articolo 2697 codice civile e l’articolo 93 della legge fallimentare.

LA DECISIONE: Con la decisione in commento, la Corte di Cassazione, dopo aver premesso che il precedente richiamato dal Tribunale (sentenza Cassazione n. 27406 del 18 novembre del 2008) è del tutto estraneo alle specifiche problematiche del diritto fallimentare, riguardando una controversia avente ad oggetto il compenso per prestazioni professionali inerenti a uno studio geomorfologico del territorio per incarico di un Comune, ha ritenuto fondato il motivo del ricorso e nell’accoglierlo ha osservato che:

  1. secondo il tradizionale orientamento della stessa Corte il curatore è da considerare come “terzo” qualificato di fronte al tema della prova del credito in sede di accertamento del passivo (cfr., per tutte, Cass., 22 novembre 2007, n. 24320);

  2. il curatore è un soggetto terzo nei confronti della confessione stragiudiziale emessa dall’imprenditore in epoca precedente alla dichiarazione del suo fallimento (Cass., 19 ottobre 2017, n. 24690; Cass., 18 dicembre 2012, n. 23318; Cass., 1 marzo 2005, n. 4288; Cass., 2 aprile 1996, n. 3055; Cass., 10 marzo 1994, n. 2339; Cass., 10 dicembre 1992, n. 13095; Cass., 28 gennaio 1986, n. 544);

  3. la dichiarazione confessoria resa dall’imprenditore avanti al suo fallimento, stante la posizione di terzo da parte del curatore, non ha valore di “piena prova”, consegnatagli invece dall’art. 2730 c.c. e art. 2735 c.c., comma 1, primo periodo. Sulla questione relativa al valore probatorio dell’atto di riconoscimento del debito, effettuato dal debitore imprenditore poi dichiarato fallito, nell’ambito della verifica dello stato passivo, di contrario avviso, rispetto a quanto affermato con la sentenza in commento, segnaliamo che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9929 del 20 aprile 2018, ha affermato che “non v’è ragione di sorta per ritenere, in caso di fallimento dell’autore della ricognizione, senz’altro inopponibile al curatore fallimentare l’effetto giuridico discendente dalla medesima, dovendosi affermare, invece, che l’esistenza del rapporto fondamentale si dovrà presumere salva la prova, di cui è ovviamente onerato proprio il curatore, dell’inesistenza o dell’invalidità dello stesso”.

Allegato:

Cassazione civile sentenza n.10215/2019

 

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