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Il presente lavoro analizza la procedura di rinuncia alla liquidazione dei beni da parte del curatore fallimentare e del curatore della liquidazione giudiziale raffrontando le normative vecchia e nuova ed indicando gli eventuali correttivi.

Crisi d’impresa e insolvenza 2024, di Autori AA. VV., Ed. Ipsoa, 2024. Il volume analizza e interpreta la normativa concorsuale e le diverse metodologie di gestione della crisi d’impresa, applicabili alle imprese italiane, a seconda della gravità della situazione.
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1. Introduzione

Nell’ambito delle procedure concorsuali di natura liquidatoria, la vecchia legge del 1942 ed ora il codice della crisi (1), sono disciplinate le modalità dell’attività liquidatoria che, come è noto rappresenta uno dei settori fondamentali dell’attività del curatore essendo finalizzata al recupero dell’attivo da distribuire ai creditori.

In tale ambito, tuttavia, la liquidazione comporta necessariamente delle spese essendo un criterio economico ancor prima che giuridico che la realizzazione di un attivo non avviene (quasi) mai a costo zero; e sempre in una prospettiva prima economica e poi giuridica vengono regolamentate anche le ipotesi in cui non è opportuno o vantaggioso procedere alla liquidazione di uno o più cespiti di una procedura liquidatoria.

Si tratta della rinunzia alla liquidazione dei beni, la c.d. derelictio) che la vecchia legge fallimentare disciplinava all’art. 104 ter comma 8° L.F.

L’intero articolo normava il programma di liquidazione, ovvero il documento programmatico della liquidazione nel quale il curatore indicava espressamente quali beni del debitore avrebbe fatto oggetto della sua attività liquidatoria, quali criteri avrebbe seguito nella liquidazione ed i tempi della stessa.

Provvidamente, però, la legge si preoccupava anche di stabilire cosa avrebbe potuto – ed in taluni casi anche dovuto – fare il curatore ove tale attività liquidatoria fosse risultata, anche in previsione antieconomica, ed a questo fine l’8° comma dell’articolo in esame prevedeva espressamente che il curatore poteva, previa autorizzazione del comitato dei creditori, non acquisire all’attivo o rinunciare alla liquidazione di determinati beni ove l’attività liquidatoria fosse manifestamente non conveniente.

La distinzione, che è stata mantenuta anche nel codice della crisi all’art. 213 comma 2°, è opportuna perché l’attività d’acquisizione è propedeutica a quella liquidatoria. L’attività d’acquisizione, a sua volta, può avere ad oggetto due tipologie di beni: o quelli che già appartengono al patrimonio del debitore, ed in tal caso si verifica lo spossessamento, che rappresenta l’effetto tipico del fallimento nei confronti del debitore, o beni che non ancora o non più appartengono al patrimonio del debitore: basti pensare, per la prima ipotesi, al caso di beni che il debitore deve ancora realizzare e, per la seconda, a beni già oggetto di un atto traslativo inefficace o nullo, che logicamente presuppone un’attività recuperatoria, normalmente di natura giudiziale, al patrimonio del debitore. L’attività liquidatoria, invece, ha ad oggetti che già sono nel patrimonio del debitore o che, per l’appunto, vi rientrano a seguito e per effetto dell’attività acquisitoria.

In entrambi i casi, tuttavia, la conseguenza della derelictio era ed è una sola: il bene, nella sostanza, rientra nella disponibilità dei creditori i quali, in deroga al principio che vieta l’avvio delle azioni esecutive sui beni compresi nel fallimento, potevano agire esecutivamente sugli stessi.

2. La nozione di bene

Prima entrare nella disamina delle questioni che il presente contributo sottopone all’attenzione del lettore, appare opportuno soffermarsi sull’oggetto della norma, ovvero il bene che può essere rinunciato.

Né l’art. 104 ter comma 8° né l’art. 213 CCI identificano il bene, e d’altronde non vi è la necessità di farlo stante la classificazione generale stabilita dall’art. 812 cod. civ. che identifica i beni immobili, i beni reputati immobili e, in via residuale i beni mobili. Se le prime due categorie sono definite positivamente, la terza ricomprende una genus vastissimo di cespiti che vanno dai beni mobili veri e propri – le c.d. cose – ai beni mobili registrati, i quali a loro volta comprendono beni materiali (vetture, imbarcazioni, motocicli e così via) ed immateriali (partecipazioni azionarie), ai crediti, ai titoli di credito, dalle privative industriali per giungere fino ai diritti potestativi (2).

In tutti questi casi il curatore si trova di fronte a beni latamente definiti che hanno ciascuno peculiarità, modalità di circolazione e modalità di recupero fra le più svariate fra loro e che, ai fini dell’attività liquidatoria, presuppongono iniziative di acquisizione, recupero e conservazione diverse fra loro: acquisire o recuperare un bene materiale significa apprenderlo e, se si tratta di un immobile o mobile registrato, l’apprensione alla massa avviene mediante la trascrizione della sentenza di fallimento nei registri deputati all’esecuzione della pubblicità dichiarativa, mentre se si tratta di un bene mobile è necessario apprenderlo fisicamente; acquisire o recuperare un credito significa agire prima per il suo accertamento e poi per il suo recupero, in sede di cognizione prima ed esecutiva dopo, mentre acquisire o recuperare un diritto potestativo significa addirittura doverlo creare con un’apposita azione giudiziaria. Tutti questi beni e le relative attività per conseguirli alla massa attiva della procedura sono l’oggetto del programma di liquidazione, il quale, tanto nella normativa della legge fallimentare quanto in quella del codice della crisi, sia pure con alcune significative differenze, deve indicare tutti i cespiti che costituiscono la liquidazione (3).

Ipotizzando una categoria generale ed omnicomprensiva dei beni, questi si possono suddividere in quattro sottocategorie:

  • beni che appartengono al patrimonio del debitore prima dell’apertura della procedura;
  • beni che pervengono al patrimonio del debitore dopo l’apertura della procedura;
  • beni che non appartengono più al patrimonio del debitore, ma che possono rientrarvi;
  • beni che deve creare il curatore con la sua attività.

La prima sottocategoria di beni è quella che viene rilevata dal curatore mediante l’analisi del patrimonio del debitore, e quindi presuppone l’indagine sugli elementi documentali e sulle informazioni che il curatore riesce ad acquisire mediante quella necessaria collaborazione che il debitore è tenuto a compiere; quindi verranno individuati i crediti, commerciali ed individuali del debitore, ancora da riscuotere, gli immobili e mobili registrati intestati a suo nome, le partecipazioni azionarie, le partecipazioni azionarie, le privative industriali e così via.

La seconda sottocategoria ha ad oggetto i beni che il debitore consegue successivamente all’apertura del fallimento o della liquidazione; si pensi ai giudizi in corso per il recupero di crediti, a vendite di beni pendenti all’apertura della procedura, a giudizi risarcitori in essere. La fattispecie è regolata dall’art. 142 comma 2° CCI. In questo caso, si tratta di beni la cui acquisizione deve essere valutata dal curatore praticamente nell’immediatezza dell’apertura della procedura e rispetto ai quali il giudizio di convenienza dell’acquisizione è nettamente più complesso e dovrà, di conseguenza, essere condotto in base a criteri valutativi ispirati alla massima prudenza.

La terza sottocategoria di beni riguarda i beni che sono stati oggetto di atti dispositivi del debitore: tali beni, che non appartengono più al patrimonio del debitore, possono però rientrarvi a seguito dell’attività finalizzata a dichiarare inefficace o nullo l’atto: si pensi alle vendite immobiliari compiute, che possono essere revocate ex art. 2901 c.c., oppure agli atti elencati nel vecchio art. 67 L.F., ora 166 CCI, tutti suscettibili di revoca.

La quarta ed ultima sottocategoria, infine, riguarda i beni che non appartengono al patrimonio del debitore, ma che devono essere realizzati mediante l’attività accertativa e ricostruttiva del curatore, ed il caso più tipico e ricorrente è il realizzo del credito di risarcimento del danno verso l’amministratore, che è un’attività che presuppone l’accertamento dei presupposti di responsabilità, i danni che ne sono conseguiti e l’indagine sulla capienza patrimoniale dell’amministratore.

3. Dall’art. 104 ter comma 8° L.F. all’art. 213 comma 2° CCI: le innovazioni della nuova normativa

Pur mantenendo invariata nella sostanza la previgente normativa dell’art. 104 ter comma 8°, la nuova disciplina del CCI introduce alcune significative rettifiche in quanto questa norma si limitava a stabilire che la liquidazione poteva essere non avviata o, se avviata, rinunciata, in caso di manifesta non convenienza, ma non veniva disposto, nulla, però, né sulle modalità della rinuncia né sulle modalità di attuazione della rinuncia relativamente al bene né sulla valutazione della manifesta non convenienza.

La prima questione – le modalità di rinuncia – è stata risolta in via applicativa con la semplice istanza (4) tramite la quale il curatore rivolgeva al comitato dei creditori (o al giudice delegato in via di supplenza) la domanda motivata con la quale chiedeva di essere esonerato dall’acquisizione o dalla liquidazione; sotto il profilo pratico non si sono posti problemi particolari in quanto il curatore, nel rivolgere l’istanza all’organo deputato all’autorizzazione, aveva l’onere, non scritto ma implicito, di spiegare dettagliatamente le ragioni della manifesta non convenienza. Poiché il problema principale della fase liquidatoria riguardava, come tuttora riguarda, l’esitabilità dei beni immobili, nella vigenza della legge fallimentare è stato ritenuto sufficiente che il curatore desse atto degli infruttuosi tentativi di vendita esperiti per giustificare la richiesta. Ed allo stesso modo ci si è regolati per la vendita dei beni mobili registrati.

L’art. 213 comma 2° CCI ha lasciato invariato questo criterio ma ha colmato le lacune dell’art. 104 ter comma 8° L.F. sotto due importanti profili: le modalità di esecuzione dell’autorizzazione alla rinuncia e la determinazione della manifesta non fondatezza.

a) L’art. 104 ter 8° comma nulla stabiliva in relazione alle modalità di attuazione della rinuncia mancando ogni norma che, specularmente a quanto stabilito dall’art. 88 L.F., desse pubblicità alla derelictio: era rimessa all’iniziativa del curatore ogni attività finalizzata a rimettere il bene nella disponibilità dei creditori, prima di tutto, e poi anche del fallito. Infatti, se il curatore era onerato della comunicazione ai creditori, nulla era stabilito a proposito della modalità di attuazione della derelictio, la quale poteva rimanere in una sorta di limbo in quanto, specialmente nel caso dei beni mobili registrati e degli immobili, non vi era alcun criterio che indicasse le iniziative di carattere liberatorio; il che aveva un riflesso particolarmente significativo con riferimento alle trascrizioni operate dal curatore, la sentenza di fallimento in primo luogo; nelle rare fattispecie affrontate dalla giurisprudenza sono stati registrati due indirizzi nettamente opposti: il primo (5) ha escluso la possibilità di ordinare la conservatore dei registri immobiliari di cancellare la trascrizione della sentenza di fallimento ritenendo che ciò potrebbe pregiudicare l’immediata iniziativa dei creditori di procedere all’esecuzione forzata individuale, che comunque l’ordine di cancellazione di quella formalità potrebbe essere comunque emesso dal giudice dell’esecuzione, che un eventuale atto dispositivo da parte del fallito sul bene derelitto verrebbe portato a conoscenza del curatore che così potrebbe apprendere alla massa attiva il controvalore dell’atto e che, infine, una tali iniziativa del curatore graverebbe la procedura di una spesa che impoverirebbe l’attivo; il secondo (6), viceversa, ha previsto che possa essere ordinata al conservatore la cancellazione ritenendo che la fuoriuscita del bene dalla massa liquidabile debba essere necessariamente esternata tramite lo strumento della pubblicità dichiarativa al fine di conferire piena pubblicità al ripristino in capo al fallito della situazione di piena disponibilità del diritto di proprietà.

L’art. 213 comma 2° CCI ha colmato la lacuna stabilendo espressamente che, una volta ottenuta la rinuncia, il curatore ha l’obbligo, oltre che di darne la comunicazione ai creditori, di notificare l’istanza e la relativa autorizzazione ai competenti uffici per l’annotazione nei pubblici registri.

Il problema, però, non riguarda solo i creditori, ma anche il fallito, rispetto al quale la normativa, sia la vecchia sia la nuova, sono rimaste del tutto silenti in quanto, in entrambi i casi, la comunicazione della derelictio deve essere data solo ai creditori. Poiché però la derelictio determina, come detto, la cessazione di quel particolare effetto della procedura – fallimentare o liquidatoria giudiziale – che è lo spossessamento con il conseguente ripristino dei poteri dispositivi in capo al fallito, è da ritenere che la comunicazione debba essere rivolta anche a quest’ultimo ad un duplice fine: prima di tutto, perché il fallito, per poterne disporre, deve anche sapere che quei beni sono stati esclusi dalla liquidazione della procedura, ed in secondo luogo per poter esercitare i diritti e gli obblighi di controllo sul bene che gli competono quale titolare, quale essenzialmente l’obbligo di custodia e tutti gli ulteriori obblighi conservativi che questo determina, oltre agli obblighi di carattere fiscale gravanti sul bene quali le tasse sulla proprietà quali la tassa di circolazione (il c.d. bollo) per i veicoli, l’IMU ed i tributi locali immobiliari per gli immobili e così via (7).

b) Come anticipato, l’art. 213 comma 2° CCI ha risolto – o, per meglio dire, ha cercato di risolvere anche il problema della determinazione della manifesta non convenienza.

L’art. 104 ter 8° L.F. non poneva alcun criterio per la determinazione della manifesta non convenienza dell’acquisizione o della liquidazione. Con particolare riferimento ai beni immobili o mobili registrati, oggetto nella liquidazione fallimentare delle procedure di vendita competitive, poteva accadere – e di fatto è spesso accaduto – che il curatore si fosse trovato a procedere a svariati quanto infruttuosi tentativi di vendita che finivano per tradursi solo in fonti di spese. In questi casi, la soluzione e la decisione del problema era sostanzialmente rimessa alla sensibilità, e molto spesso alla pervicacia del curatore, con la conseguenza che, nella prassi, si potevano avere casi in cui il curatore procedeva ad oltranza nelle vendite nella speranza che prima o poi il bene fosse venduto ed altri in cui il curatore abbandonava la liquidazione dopo un solo tentativo o addirittura dopo nemmeno aver tentato.

L’art. 213 comma 2° CCI ha introdotto un importante correttivo stabilendo che si presume manifestamente (8) non conveniente la prosecuzione dell’attività di liquidazione dopo sei esperimenti di vendita cui non ha fatto seguito l’aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l’attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi.

Innanzi tutto, contrariamente a quanto si possa ritenere, la norma non pone l’obbligo del curatore di compiere almeno sei tentativi di vendita: se il bene, per sua natura, è di difficile esitazione, il curatore, ovviamente sulla scorta di elementi di fatto esaustivi e ragionevoli, può chiedere al comitato dei creditori, di poter abbandonare la liquidazione anche senza tentare sei volte la vendita in quanto tali tentativi di vendita rappresenterebbero solo una serie di spese inutili che andrebbero a danno dei creditori.

In secondo luogo, la norma non fa assurgere l’attività di liquidazione, da esprimersi attraversi i sei tentativi di vendita, a condizione per poter procedere alla derelictio: si limita a porre una presunzione semplice, in quanto tale vincibile dalla prova contraria che lo stesso curatore può superare se deduce motivi che giustifichino ulteriori tentativi di liquidazione. Legittimato a proporre l’istanza per procedere ai tentativi di liquidazione oltre il sesto, e quindi a vincere la presunzione di manifesta non convenienza, poi, si deve ritenere che non sia solo il curatore ma anche tutti i creditori e lo stesso fallito, che ben possono dedurre al giudice delegato, mediante apposito reclamo contro gli atti amministrativi del curatore, la sussistenza di quei giustificati motivi che legittimano la continuazione dell’attività liquidatoria.

4. La derelictio degli altri beni

La nuova normativa si è preoccupata della derelictio con riferimento ai beni immobili e mobili registrati ma non ha dato alcuna indicazione relativamente agli altri beni (9).

Muovendo dalla distinzione delle categorie di beni descritte al precedente capitolo 2 si possono indicare i criteri direttivi principali per la valutazione dei presupposti della derelictio.

Per i beni che già appartengono al patrimonio del debitore, la derelictio presuppone, quanto ai beni materiali quali mobili, mobili registrati ed immobili, l’accertamento del loro valore e della loro vendibilità, il che usualmente avviene tramite la perizia; e ad identico criterio si ricorre per l’accertamento del valore dei beni immateriali quali le partecipazioni azionarie, le privative industriali, e le universalità di beni quali le aziende. Un discorso più approfondito meritano i crediti appartenenti al patrimonio del debitore: l’analisi della recuperabilità di un credito, e quindi la sua potenziale esclusione dal programma di liquidazione ovvero la sua rinuncia ove già incluso, non può prescindere dalla valutazione del debitore del debitore fallito o liquidato. Pertanto, al fine di rinunciare al recupero di un credito, sarà necessario che il curatore accerti con attenzione la garanzia patrimoniale del debitore sia sotto il profilo della sua capienza patrimoniale sia sotto il profilo della sua capacità di produrre reddito (10); tale accertamento, che nella pratica si risolve in un giudizio prognostico sulla capacità patrimoniale del debitore, dovrà essere condotto con molta prudenza partendo dai dati acquisibili mediante accurate indagini patrimoniali attraverso le usuali banche dati della pubblica amministrazione (11), rese più incisive ed affidabili dal nuovo strumento posto dall’art. 492 bis c.p.c.

I beni che pervengono al patrimonio del debitore sono quelli oggetto della disciplina di cui all’art. 142 CCI. Come si è già anticipato, questi beni sono oggetto di una valutazione prognostica che il curatore deve condurre in base a criteri di massima prudenza per decidere se acquisirli o meno (12). Anche in questo sarà la natura del bene a determinare le scelte ed i criteri di valutazione attenendosi alle c.d. best practices.

I beni che non appartengono più al patrimonio del debitore, ma che sono suscettibili di rientrarvi per effetto dell’esercizio delle azioni volte alla loro declaratoria d’inefficacia o di nullità, presuppongono un’indagine ancora più attenta in ordine ai presupposti di esperibilità dell’azione: quindi, per limitarsi ai casi più frequenti, ove il bene sia stato oggetto di un atto dispositivo compiuto dal fallito dovranno essere verificati con la massima attenzione i presupposti dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c., con particolare riferimento, innanzi tutto, al momento di compimento dell’atto onde accertarne l’eventuale intervenuta prescrizione ovvero il termine in cui maturerà per evitare, nel primo caso, un’azione inutile e, nel secondo, di perdere l’azione.

Per quello che riguarda, infine i beni di realizzazione da parte del curatore quali i già accennati crediti risarcitori verso l’amministratore, il primo presupposto delle derelictio è dato dall’accertamento delle prospettive dell’azione: in questo caso, il curatore ha l’onere di giustificare l’istanza di rinuncia con specifico riferimento all’azione, ovvero dedurne le problematiche in tema di sussistenza della responsabilità, la difficoltà sotto il profilo probatorio, oppure – non ultimo – l’infruttuosità sotto il profilo della capienza patrimoniale del soggetto passivo dell’azione; in questi casi la prassi delle curatele si è sempre più orientata, quanto ai primi due problemi, ad acquisire un parere da parte di un legale esperto di questioni societarie e, quanto alla terza, all’espletamento di accurate indagini patrimoniali, rese più precise, come già accennato, dal nuovo strumento posto dall’art. 492 bis c.p.c.

5. La revoca dell’autorizzazione alla derelictio

Uno spunto di riflessione che offre la normativa, o per meglio dire la mancanza di normativa in proposito, è dato dall’eventualità che il curatore si trovi nella necessità di chiedere la revoca dell’autorizzazione alla rinuncia già ottenuta: caso che può accadere quando, successivamente all’autorizzazione, al curatore pervenga l’interessamento al bene da parte di un terzo che modifichi il giudizio di convenienza precedentemente formulato dal curatore.

È opinione riconosciuta che il curatore possa modificare senz’altro la decisione sulla derelictio (13), ma tale ripensamento pone delle difficoltà interpretative sotto vari profili che appare opportuno evidenziare.

Il primo riguarda il termine entro il quale la derelictio possa essere ripensata, e conseguentemente revocata: posto che il curatore deve comunicare ai creditori – e, come abbiamo visto, anche al debitore fallito – la decisione, debitamente autorizzata dal comitato dei creditori, di rinunciare all’acquisizione ovvero alla liquidazione, il ripensamento sarà ammissibile fino al momento in cui i destinatari della comunicazione non abbiano avviato le azioni esecutive sul bene, inizialmente precluse dall’apertura della procedura. Pertanto, dopo che un creditore abbia notificato il pignoramento, ovvero il debitore abbia alienato o comunque compiuto atti dispositivi del bene non sarà più possibile per il curatore chiedere la revoca dell’autorizzazione a rinunciare alla liquidazione avendo la derelictio, o per meglio dire la sua comunicazione, raggiunto lo scopo di consentire, rispettivamente, ai creditori di agire esecutivamente sul bene rinunciato ed al fallito di disporne. Allo stesso modo, se il curatore ha rinunciato a realizzare un credito, il ripensamento sarà possibile fino a quanto i creditori o il debitore non abbiano avviato – a mio avviso anche in sede stragiudiziale – le iniziative recuperatorie necessarie.

Il secondo profilo riguarda le modalità attuazione di ripensamento: poiché il curatore deve essere autorizzato dal comitato dei creditori a rinunciare all’acquisizione o alla liquidazione, sarà questo stesso organo il destinatario dell’istanza di revoca della rinuncia già autorizzata, mentre il giudice delegato dovrà autorizzare il compimento degli atti conformi. Peraltro, si porrà il problema per il curatore di armonizzare la revoca della derelictio con il programma di liquidazione a seconda che si tratti di rinuncia all’acquisizione o rinuncia alla liquidazione: mentre nel secondo caso, il curatore non sarà onerato di attività descrittive integrative da inserire nel programma in quanto la liquidazione già ne faceva parte, in caso di ripensamento sull’acquisizione sarà necessario un supplemento di programma che indichi, nel rispetto dei dettami dell’art. 213 CCI, le attività ed iniziative da intraprendere per l’acquisizione specificandone i relativi tempi e costi presumibili.

Il terzo profilo che mette conto segnalare è quello relativo alle iniziative dei creditori per contrastare il ripensamento del curatore. Può infatti accadere che il creditore possa ritenere più conveniente procedere autonomamente sul bene piuttosto che non lasciarne la liquidazione al curatore; ed il motivo principale sta nel fatto che, mentre nel fallimento o nella liquidazione giudiziale, subirebbe il concorso di tutti gli altri creditori concorrenti, in un’esecuzione individuale vi sarebbe il solo creditore procedente subendo solo il concorso ci chi volesse intervenire. In questo caso si può ritenere che il creditore interessato, una volta ricevuta la comunicazione da parte del curatore, possa proporre al giudice delegato reclamo contro l’atto autorizzativo del comitato dei creditori ai sensi dell’art. 36 L.F. ovvero, nella nuova disciplina, ai sensi dell’art. 133 CCI.

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NOTE

1) Per un interessante raffronto sulle due diverse normative si veda R. DELLA SANTINA “La derelizione dei beni nelle procedure concorsuali e gli obblighi di ripristino ambientale” in ilcaso.it 08/09/2021.

2) Correttamente è stato ritenuto che “la rinuncia ad un credito da parte della curatela possa farsi rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 1.04 ter co. 8 legge fallimentare, interpretando estensivamente la nozione di beni come comprensiva di ogni posta attiva del fallimento” (Trib. Reggio Emilia 12/06/2017).

3) Si tratta di beni, latamente intesi, che costituiscono oggetto dell’attività di accertamento e ricostruzione dell’attivo che il curatore compie prima nell’inventario e poi descrive nel programma di liquidazione.

4) In questo senso si erano orientate nella vigenza della legge fallimentare le c.d. best practices dei vari tribunali: si vedano ad esempio le linee guida espresse nel decreto n. 14 del Tribunale di Novara del 05/05/2016, le linee guida espresse nel decreto 22/2014 del Tribunale di santa Maria Capua Vetere del 18/11/2022 o ancora la nota orientativa del Tribunale di Savona 22/02/2017.

5) Trib. Catania, 12/08/2017 in Dejure.

6) Trib. Terni, 29/10/2020 in Diritto della crisi.

7) Peraltro, Trib. Catania 12/08/2017 citato ha anche precisato che, quantunque il bene non sia più nella disponibilità del curatore a seguito della derelictio, egli ben può apprendere all’attivo il ricavato dell’atto dispositivo compiuto dal debitore.

8) È stato giustamente osservato che, ponendo l’avverbio “manifestamente”, la norma ha inteso stabilire che, ove la liquidazione sia dubbia nel senso che non sia manifestamente non conveniente procedervi, non vi è spazio per la discrezionalità del curatore, che deve procedere alla vendita (R. DELLA SANTINA, op. cit., NONNO, Art. 104-ter, in La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico).

9) D’altra parte va anche considerato che, con riferimento ai crediti, l’art. 35 L.F., ed ora l’art. 132 CCI, stabiliscono che le riduzioni di crediti – e quindi a maggior ragione anche la rinuncia – costituiscono atti di straordinaria amministrazione del curatore che devono essere autorizzati dal comitato dei creditori, previa apposita informativa al giudice delegato se di valore superiore a 50.000 euro

10) Con riferimento alla valutazione della solvibilità dei debitori, il primo strumento è dato dall’analisi dei bilanci, attingibili dal registro delle imprese, ove il debitore sia un soggetto obbligato alla loro pubblicazione: tale documento, che dovrebbe esprimere sia il risultato dell’ultimo esercizio sia le prospettive dell’esercizio successivo, può mettere il curatore in condizione di conoscere il patrimonio del suo debitore mediante l’analisi dello stato patrimoniale, la sua capacità di produrre reddito attraverso l’analisi del conto economico e le prospettive future mediante lo studio della nota integrativa e della relazione sulla gestione. Inoltre, sempre dal registro delle imprese possono essere tratte le c.d. schede persona, ovvero dei documenti dai quali è possibile ricavare tutte le informazioni relative alle cariche o partecipazioni di un determinato soggetto persona fisica.

11) Altro strumento fondamentale sono le ispezioni ipotecarie e catastali per verificare se il debitore possieda beni immobili o ne abbia fatto oggetto di atti dispositivi potenzialmente suscettibili d’inefficacia al fine di ricostituire la garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c.: in questo caso sarà necessaria un’attenta analisi degli elementi dell’atto dispositivo quali la natura, il contraente, il controvalore acquisito e così via.

12) Cfr. A. Paluchowski, Art. 104-ter, Programma di liquidazione, in Pajardi, Codice del Fallimento, (a cura di) Bocchiola- Paluchowski, Milano, 2013, p. 1315, che parla di «criteri prudenti di previsione».

13) Nonno, Art. 104-ter cit., p. 1424; A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Milano, 2013, p. 730.

 

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