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(disegno di elena mistrello)

Sono le 12:30 di mattina quando lasciamo piazzetta San Severo. È stata un’amica di vecchia data a riportarmi nell’antica valle del tufo. È venuta da Roma per la mostra di Jago, lo scultore che ha trovato casa nel rione Sanità. Il giro è cominciato alle 11 ai Vergini, nella chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, per poi proseguire nella basilica di San Severo fuori le mura dove è esposta una delle opere più conosciute dello scultore di Anagni, il Figlio Velato. Nella testa ci frullano ancora le parole della guida turistica della cooperativa La Sorte prima e di quella della cooperativa La Paranza poi. Un racconto quasi identico nella forma, nel tono e nei contenuti – tenuto con una favella degna della migliore tradizione del commercio ambulante napoletano – attraverso cui i lavoratori delle due cooperative hanno venduto a noi due e ai 170 mila visitatori registrati da inizio anno nei diversi siti gestiti dalla Paranza la favola del riscatto economico reso possibile dalle imprese sociali promosse da padre Antonio Loffredo insieme ai giovani della parrocchia di Santa Maria della Sanità. Le guide ci tengono a sottolineare che la cooperativa dà lavoro a più di quaranta persone e che presto gestirà altri siti di interesse storico-artistico all’interno del quartiere. Uscendo dalla basilica io e Michela riflettiamo sul fatto che in realtà è da sempre che ai preti del Mezzogiorno, oltre alle opere di carità, sono delegate anche le politiche del lavoro. Oggi, però, la novità sta tutta nelle modalità in cui il lavoro viene elargito: non più dall’alto e in modo passivo, attraverso il ricorso a segnalazioni e spintarelle, ma dal basso e in modo attivo attraverso le fondazioni, il marketing territoriale, la partecipazione ai bandi e le sinergie istituzionali.

Decidiamo di raggiungere il centro antico percorrendo via dei Cristallini, quindi piazza Cavour, tagliando poi per l’Anticaglia. Tra cumuli di rifiuti, escrementi di cane, monnezza che deborda dai cestini dell’Asia, acchiappini che ci invitano a sedere, puzza di fritto e motorini con targhe polacche che ci ronzano intorno come mosche, continuiamo a chiederci dove e a chi sia apparso il miracolo turistico di cui tutti parlano in città.

Alle 13:30, lasciandoci dietro il decumano maggiore, decidiamo di sederci al tavolo di un bar in una delle piazze principali della città. È lì che ci raggiunge Tonino. L’ho conosciuto in un torrido pomeriggio di fine estate mentre su via Costantinopoli cercava di mettere in moto la sua vespa scassata. Mentre lo aiutavo a pulire la candela mi aveva raccontato del lavoro di merda che era costretto a fare per pagarsi gli studi. Da quel giorno l’ho contattato diverse volte senza mai riuscire a fissare un appuntamento. La settimana scorsa mi ha telefonato e mi ha dato appuntamento per oggi. Tonino è uno dei lavoratori informali dell’industria turistica napoletana, uno dei tanti operai chiamati a edificare il miracolo economico della città. Da un anno e mezzo lavora come cameriere in una struttura ibrida nel cuore del centro storico. Ibrida perché l’attività è bar, pub e bed and breakfast. L’attività nasce come bar. Poi, poco prima della pandemia, i gestori hanno creato un b&b. Dopo un anno hanno deciso di cimentarsi anche nella ristorazione. Il b&b è nello stesso edificio in cui si trova il bar/pub. «Io svolgo diverse mansioni – dice Tonino –: mi occupo del check-in e del check-out dei clienti che arrivano nel b&b, faccio il banconista, lavoro come punta o acchiappino (cioè quello che deve intercettare i turisti per strada e convincerli a sedersi al tavolo del bar/ristorante), gestisco il magazzino e la sala, mi occupo della cassa e poi servo ai tavoli. Sono addetto anche al trasporto delle valigie dei turisti nella stanza. In struttura siamo una decina di dipendenti, compresi quelli in cucina. Siamo quasi tutti italiani e al di sotto dei trent’anni. I clienti sono soprattutto turisti, prevalentemente anziani. Il lavoro è organizzato su due turni: quello di mattina, dalle sei di mattina alle tre del pomeriggio, e quello serale, dalle tre fino a chiusura. Fino a chiusura significa che si può chiudere sia all’una che alle tre di notte. Io lavoro una settimana di mattina e una di sera. Il problema è che qui si prepara di tutto: caffè, aperitivo, pasta, pizza, patatine, birre, ecc. Noi siamo principalmente bar ma abbiamo anche la cucina. Nell’ottica di chi investe bisogna puntare sempre più alla cucina: per alcune tipologie di prodotto, a fronte di una spesa minima c’è un guadagno massimo; un piatto di pasta al pomodoro all’imprenditore costa due euro e lo rivende a quindici… Io lavoro sei giorni su sette. Non ho nessun contratto, lavoro a nero. In media dieci ore al giorno. Mi pagano 40 euro al giorno e lo stipendio me lo danno ogni due settimane. Diciamo che in media guadagno 4 euro all’ora. Il turno di lavoro può essere di nove ma anche di dodici ore. Succede spesso in questo periodo. Comincio alle tre di pomeriggio e finisco alle tre di notte. In questo modo riesco a guadagnare 240 euro a settimana. Con le mance arrivo a mille euro al mese».

Sono quasi le 14:30 quando ordiniamo tre parmigiane di melanzane. Negli ultimi anni, a seguito dell’aumento vertiginoso dei flussi turistici, questo piatto lo si trova ovunque, anche nei bar come quello in cui sediamo noi tre adesso. Mangiando spesso fuori casa e chiacchierando molto con i lavoratori, abbiamo rilevato che negli ultimi anni a essere cambiata non è tanto la qualità delle parmigiane disponibili in città, ma la modalità di produzione delle stesse. Molti locali, infatti, non possiedono una cucina e si avvalgono di collaboratori esterni. Si tratta di una sorta di servizio di ristorazione esterno a cui una porzione sempre maggiore dell’industria cittadina del beverage – quella sprovvista di licenza per la preparazione di cibo – esternalizza la realizzazione di piatti e pietanze. Lavoratori informali a domicilio a cui non si affida più, come negli anni Settanta, la realizzazione di determinate fasi del processo produttivo per conto dei marchi dell’industria delle calzature o dell’abbigliamento, ma la preparazione di melanzane, pasta al forno e gnocchi alla sorrentina per conto dei bar dell’industria del turismo. Una delle esponenti di questo nuovo segmento di forza lavoro l’ho intervistata qualche tempo fa, quando il turismo in città era appena esploso¹.

Il modello napoletano di industria turistica presenta caratteristiche precise. Si tratta innanzitutto di un turismo povero, sia sotto il profilo dell’offerta economica che dell’offerta culturale, trainato dal basso costo della vita che caratterizza le metropoli meridionali, alimentato principalmente da investimenti di capitale in attività di alloggio e ristorazione, costituito da imprese di piccolissime dimensioni a carattere prevalentemente familiare, sostenuto da una forza lavoro giovane dalla composizione sociale eterogenea e fondato su una compressione massiccia del costo del lavoro attraverso il ricorso a dispositivi di regolazione informale delle relazioni di lavoro, nella fattispecie lavoro nero e lavoro grigio. Quella del turismo napoletano è un’economia stracciona che negli ultimi anni ha agito non solo da meccanismo moltiplicatore di occasioni di lavoro informale e mal retribuito, già largamente diffuse in città prima dell’avvento del fenomeno, ma da generatore di nuove figure lavorative dal carattere fortemente discontinuo e precario finendo per impoverire ulteriormente il tessuto produttivo della città.

L’irregolarità delle relazioni di lavoro – sotto il profilo della tipologia di rapporto, delle condizioni di esercizio e della protezione assicurativa e contributiva – e la frammentazione del processo produttivo registrata nel settore della ristorazione interessa anche altri segmenti dell’industria turistica, in particolare il settore dell’ospitalità. Qui lo sviluppo della domanda di locazioni brevi ha dato vita a una catena produttiva estremamente frammentata costituita da diversi anelli – piattaforme digitali (airbnb, booking, ecc.), proprietari di immobili, società di property management², imprese di pulizia, addetti all’accoglienza (check-in e check-out) – in cui le asimmetrie nelle relazioni economiche e di potere tra attori/imprese all’interno della filiera si traducono in una compressione del costo del lavoro a danno dei lavoratori collocati nei segmenti terminali della filiera. Questa compressione ha generato nuove forme di lavoro a cottimo come quella del checkinsta itinerante.

Sono le 15:30 quando arriva Lucia. Lavora nell’anello terminale della filiera dell’accoglienza. È una lavoratrice a cottimo e gira per la città accompagnando i turisti nelle strutture extra-alberghiere gestite da una grossa società di property management. È stato Tonino a chiamarla e a chiederle di raccontarmi la sua storia.

«Lavoro per una società che gestisce diverse case vacanze qui a Napoli – racconta – e faccio i check-in per conto loro. A fare i check-in siamo più persone. Poi, ovviamente, ci sono quelli che fanno le pulizie. Io ho rapporti solo con la persona che mi ha assunto, il property manager, colui che gestisce le case per conto della società. Il lavoro funziona così: all’inizio del mese a me e agli altri checkinisti arriva un planning mensile con tutti i check-in da effettuare nel corso del mese. Ogni fine settimana, in base agli impegni di ciascuno, ci organizziamo tra noi per i check-in della settimana seguente. Nel momento in cui dispongo degli arrivi settimanali, inizio a contattare i clienti tramite Whatsapp. Gli chiedo di indicarmi l’orario di arrivo, il numero del volo o del treno, e tutte quelle info che mi aiutano a pianificare meglio l’accoglienza. Il giorno dell’arrivo scendo da casa mia con in tasca le chiavi dell’appartamento prenotato. Poco prima dell’arrivo dei clienti apro le finestre, faccio arieggiare un po’ la casa e accendo l’aria condizionata. Poi vado a prenderli e quando arrivano gli mostro la casa, faccio la fotocopia dei loro documenti, gli fornisco la password del wi-fi e qualche consiglio sui ristoranti in cui mangiare. Il segmento di mercato delle nostre case vacanza è molto variegato. Ci sono case di lusso da mille euro a notte e appartamenti da 100 euro a notte per posto letto. Ho scelto di fare questo lavoro perché gli orari sono molto flessibili. Io sono una studentessa e anche se devo fare un check-in di mattina mentre sto seguendo un corso non ci metto nulla a uscire dal dipartimento e raggiungere il cliente. Un check-in dura massimo venti minuti. In media faccio una ventina di check-in al mese. In agenzia siamo più persone perché questo garantisce al datore di lavoro di avere sempre una copertura nel caso in cui qualcuno dovesse assentarsi o nel caso in cui i check-in dovessero sovrapporsi. Io guadagno poco più di 15 euro per ogni check-in e vengo pagata a fine mese con un bonifico. In media arrivo a guadagnare 300/400 euro al mese. C’è anche però di guadagna molto di più. Ovviamente lo stipendio dipende dai mesi. A Natale, per esempio, è tutto sold-out e i check-in saranno di più. Io ho un contratto di prestazione occasionale. Il mio titolare dice che purtroppo in Italia non esiste una fattispecie giuridica capace di regolare un rapporto di lavoro di questo tipo. Non mi può fare un contratto con una paga fissa perché ci sono mesi in cui facciamo pochi check-in e altri in cui se ne fanno tanti. A fine mese lui dichiara all’Inps quante volte sono andata a lavorare, quanto mi ha pagata, e poi versa le tasse».

Sono le 16:15 quando liberiamo il tavolo. La barista si appresta a sparecchiare. Sembra felice perché piove a dirotto e sa che in una giornata di merda come questa, a parte noi quattro, sarà pochissima la gente che dovrà servire ai tavoli per nemmeno cinque euro l’ora, una vera e propria paga da fame. (giuseppe d’onofrio)


¹D’Onofrio G., “I lavoratori della ristorazione e dell’ospitalità nella Napoli del turismo”, Lo stato delle città, n. 0, Monitor, Napoli, ottobre 2018, pp. 64-69.

²Si tratta di società che gestiscono per conto dei proprietari – a fronte di una provvigione – alcuni aspetti della locazione: pubblicazione degli annunci, definizione del prezzo, riscossione del denaro e versamento delle ritenute fiscali, organizzazione delle attività di pulizie, organizzazione e pianificazione dell’attività di check-in e check-out. I dipendenti di queste società sono definiti property managers.

 

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