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Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è un tipo di contratto di lavoro stipulato a livello nazionale tra le organizzazioni rappresentanti dei lavoratori dipendenti e i loro datori di lavoro vale a dire dalle rispettive parti sociali in seguito a contrattazione collettiva e successivo relativo accordo.
Ha validità “Erga Omnes” vale a dire “Verso chiunque” e vale anche per chi non è iscritto a un sindacato.
I contratti e le loro successive modifiche, sono raccolti e conservati nell’archivio nazionale del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).

Per approfondire l’argomento: Il lavoro subordinato -Rapporto contrattuale e tutela dei diritti

1. Origini ed evoluzione


Il sistema corporativo fascista: l’introduzione
L’introduzione del contratto collettivo nazionale di lavoro in Italia si ebbe, durante il ventennio fascista, con la promulgazione della Carta del Lavoro pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia n. 100 del 30 aprile 1927 che acquisì valore giuridico a partire dal 1941.
Il contratto collettivo era istituito a strumento di sintesi del superamento della lotta di classe e, secondo un’impostazione di natura produttivistica:
 Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione
(art. IV)
La Carta rendeva vincolante l’efficacia dei contratti, siglati dalle corporazioni dei lavoratori (corporativismo), nei confronti dei lavoratori:
stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per gli appartenenti alla categoria
(art. III)
Furono stabilite anche le prassi di compilazione e approvazione dei contratti, alla quale redazione erano obbligate a partecipare le associazioni sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro:
Le associazioni professionali hanno l’obbligo di regolare, mediante contratti collettivi, i rapporti di lavoro tra le categorie di datori di lavoro e di lavoratori che rappresentano
(art. XI)
La ratio sottostante il quadro nel quale fu promulgata la Carta è quella del sindacalismo fascista teso, anche se lungo diverse e spesso conflittuali correnti sulla sua impostazione, all’assicurare un processo di inclusione dell’individuo e del lavoratore all’interno delle strutture dello Stato come furono proprio i sindacati che divennero enti di diritto pubblico.
L’impostazione del sindacalismo corporativo risente dell’impostazione autoritaria del sistema giuridico durante il regime fascista.
Il sistema corporativo non riconosceva la libertà sindacale dei lavoratori, imponendo l’iscrizione all’unico sindacato fascista esistente per ogni categoria professionale.
A questo si aggiungeva un ridotto potere negoziale degli stessi sindacati fascisti, privati dello strumento più importante della pressione sindacale: lo sciopero, come la serrata degli imprenditori, era infatti punito penalmente (articoli 502-507).
 
Il secondo dopoguerra, gli anni ’60 e l’ “autunno caldo”
Con la nascita della Repubblica Italiana, l’articolo 39 della Costituzione stabilì il principio che la regolamentazione dei rapporti di lavoro possa essere regolata da contratti collettivi stipulati a livello nazionale.
La loro vincolatività erga omnes è anche per i non iscritti alle organizzazioni sindacali, però, era subordinata a una forma di riconoscimento giuridico che non è mai stata attivata, nonostante un tentativo sia stato fatto con la legge n. 741/1959 durante il governo Segni due.
Prima degli anni sessanta il sistema di relazioni industriali dell’Italia era centralizzato e in prevalenza di matrice politica, e questa è stata la causa principale di una contrattazione collettiva debole e statica.
La posizione dominante spettava ai contratti nazionali stipulati dai vertici del sindacalismo confederale che hanno così fissato quote minime contributive e gabbie salariali a livello nazionale lasciando molto poco spazio di azione ai livelli inferiori di contrattazione collettiva, rappresentati dai contratti collettivi di categoria e aziendali.
Il miracolo economico italiano del decennio conferì maggior peso e incisività ai lavoratori e ai loro sindacati, favorendo una progressiva decentralizzazione del sistema sindacale italiano e della contrattazione collettiva.
Assumono mediocre importanza le contrattazioni collettive di categoria e aziendali, nei confronti delle quali il contratto nazionale di livello confederale compie una deroga ancora parziale in relazione ai contenuti e ai soggetti titolari alla loro stipulazione (possono concludere questi contratti i sindacati provinciali di categoria e non le Rappresentanze Sindacali Aziendali).
L’incisività dei sindacati italiani sul sistema di relazioni industriali dell’Italia raggiunge il suo culmine nel “biennio di lotta” 1968-1970 e questo spiega perché la prima metà degli anni settanta rappresentino il periodo di minore istituzionalizzazione (i vari livelli di contrattazione collettiva si prefigurano autonomi e indipendenti gli uni dagli altri) e di massimo decentramento (la funzione trainante delle relazioni industriali viene svolta dalla contrattazione collettiva aziendale).
Si può comprendere perché il periodo risulti caratterizzato anche da una forte bipolarità.
La contrattazione collettiva nazionale di categoria non perde il proprio fondamentale ruolo ma diventa strumento di estensione a livello nazionale delle innovazioni introdotte dai vari contratti collettivi aziendali.
 
Dagli anni ‘70 agli anni ‘90: la concertazione
La profonda crisi economica nazionale e internazionale porta lo Stato a maggiori azioni nel settore delle relazioni industriali e alla creazione del meccanismo del cosiddetto scambio sociale, nel quale lo Stato utilizza i mezzi dei quali può disporre (concessione di agevolazioni fiscali agli imprenditori e promessa di una legislazione di sostegno ai sindacati) per incentivare i sindacati dei lavoratori e dei datori a cooperare, riducendo al minimo il conflitto tra loro, per aiutare il Paese a superare il difficile momento di crisi.
Questo comporta un progressivo riaccentramento del sistema sindacale e un contemporaneo rovesciamento degli equilibri delle relazioni industriali.
La funzione trainante spetta adesso agli accordi cosiddetti trilaterali (sindacati dei lavoratori, degli imprenditori e istituzioni pubbliche) e la contrattazione collettiva aziendale, nonostante non perda il suo ruolo-chiave, è costretta a porsi principalmente come contrattazione difensiva.
Negli anni ‘80 la ripresa dopo la crisi e la molto rapida innovazione tecnologica portano il sistema delle relazioni industriali verso un altro decentramento, il quale si configura come una delle principali cause della debolezza sindacale.
La contrattazione collettiva, a parte porsi obiettivi sempre più difensivi, riduce il proprio ambito e la propria efficacia.
Negli anni ‘90 la necessità di risanare il debito pubblico dello Stato e di allinearsi ai requisiti indicati dall’UE per diventare paese membro dell’Euro portano il paese verso un progressivo riaccentramento delle relazioni industriali e verso quella che viene definita e istituzionalizzata nel protocollo del 23 luglio 1993 come concertazione sociale, sistema di collaborazione tra maggiori confederazioni sindacali e Governo che prevede una sempre più ampia partecipazione dei primi alle decisioni di politica macro-economica dello stesso.
Consacrato anche dal patto di Natale del 1998 (introduttivo dei principi di “legislazione negoziata” e consultazione obbligatoria ma non vincolante) il modificato equilibrio di relazioni industriali prefigura un doppio livello di contrattazione nel quale la definizione di ambiti, tempi, modalità di articolazione, materie e istituti del contratto collettivo aziendale sono predeterminati dal contratto collettivo nazionale di categoria.
 
Gli anni 2000 e gli accordi sociali
L’evoluzione del nostro sistema contrattuale e di relazioni industriali si presenta difficilmente decifrabile in prospettiva futura.
Se da un lato dovrebbe essere augurabile un ridimensionamento del ruolo del contratto nazionale in favore di una valorizzazione della contrattazione aziendale, i Patti per l’Italia del 2002, sostituendo la concertazione con il meno incisivo dialogo sociale, hanno trasferito i rapporti confederazioni sindacali-Stato su un piano più specifico confinando però il ruolo dei primi nell’ambito dei pareri e delle raccomandazioni.
Questo ha portato parte della dottrina a ravvisare un indebolimento delle organizzazioni sindacali sul piano dei rapporti tra legge e contratto.


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2. Caratteristiche e finalità


Nel settore del lavoro privato è stipulato tra le organizzazioni rappresentative dei lavoratori dei sindacati in Italia e le associazioni dei datori di lavoro (o un singolo datore) che predeterminano congiuntamente la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte normativa) e alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria).
Da un punto di vista giuridico, i CCNL sono ordinari contratti di diritto comune e sono vincolanti esclusivamente per i dipendenti iscritti al sindacato che ha stipulato un determinato CCNL.
Diverso è il caso dei dipendenti pubblici.
Nel settore della pubblica amministrazione italiana i soggetti interessati sono tra le rappresentanze sindacali dei lavoratori e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), che rappresenta per legge la P.A. nella contrattazione collettiva.
La banca dati ufficiale è tenuta dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), che gestisce tra l’altro un archivio elettronico dei CCNL (correnti e passati).
Le finalità essenziali del contratto collettivo sono:
determinare il contenuto essenziale dei contratti individuali di lavoro in un certo settore (commercio, industria metalmeccanica, industria chimica, ecc.), sia sotto l’aspetto economico (retribuzione, trattamenti di anzianità) che sotto quello normativo (disciplina dell’orario, qualifiche e mansioni, stabilità del rapporto).
disciplinare i rapporti (cosiddette relazioni industriali) tra i soggetti collettivi.
In Italia, la contrattazione collettiva si svolge a diversi livelli, da quello interconfederale (cui partecipa spesso anche lo Stato, in funzione di mediatore nelle trattative tra le confederazioni dei lavoratori e quelle dei datori) a quello di categoria, a quello locale e aziendale.
I contratti che hanno maggiore rilevanza pratica sono i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL), conclusi a livello di categoria.
 
Le parti e gli elementi fondamentali
Il contratto collettivo di lavoro è di solito concluso dalle associazioni sindacali di categoria che rappresentano i datori e i lavoratori che svolgono la loro attività in un determinato settore.
A livello aziendale, il contratto può essere stipulato anche dal singolo datore di lavoro, che è legittimato a condurre le trattative con le organizzazioni sindacali aziendali ovvero con un gruppo, anche spontaneo e non sindacalizzato, di lavoratori.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno chiarito che anche per il CCNL, come per la generalità dei contratti, vale il principio della libertà di forma (Cassazione, S.U., 22.03.1995, n. 3318).
Di solito, i contratti collettivi sono conclusi per iscritto per comprensibili ragioni di chiarezza.
La durata del contratto è fissata dalle parti stipulanti.
Il contratto collettivo nazionale di categoria ha una durata di tre anni sia per la parte normativa sia per la parte economica.
Alla scadenza del termine, in conformità ai principi, il CCNL cessa di produrre effetti e non è più vincolante.
La Suprema Corte di Cassazione ha di recente chiarito che l’articolo 2074 del codice civile non si applica ai contratti collettivi di diritto comune (Cassazione, 17.01.2004, n. 668).
Anche dopo la scadenza del contratto conservano la loro efficacia le clausole attinenti alla retribuzione, atteso il rilievo costituzionale della prestazione contrattualmente dovuta al lavoratore.
La procedura di rinnovo del contratto è avviata tre mesi prima della scadenza dello stesso, con la presentazione delle cosiddette piattaforme rivendicative.
Negli ultimi tre mesi di vigenza del contratto e nel mese successivo le parti collettive hanno l’obbligo di non intraprendere iniziative di lotta sindacale.
Se il contratto scade senza che le parti collettive trovino un accordo per il rinnovo, ai lavoratori è dovuta la cosiddetta indennità di vacanza contrattuale, cioè un importo addizionale che ha la funzione di preservare la retribuzione (almeno in parte) dagli effetti dell’inflazione.
La legge italiana non obbliga le parti sociali a sedersi intorno a un tavolo e arrivare a un altro accordo entro tempi prestabiliti dopo la scadenza del CCNL.
La concertazione non è riconosciuta nell’ordinamento giuridico come una fonte “obbligata” del diritto del lavoro, che ha competenza esclusiva su determinati argomenti.
In sede di rinnovo, se ci sono evidenti difficoltà delle parti sociali a pervenire a un accordo, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali può decidere di passare ai cosiddetti lodi governativi, nei quali le condizioni del contratto sono dettate dalla pubblica autorità, che vincola le parti sociali a sottoscriverlo, oppure le impone per decreto.
Con decreto del Governo o del Presidente della Repubblica possono essere riprese parti del CCNL, che ricevono forza di legge erga omnes, per i lavoratori che appartengono a una categoria.
 
Il rapporto con le altre fonti del diritto
Il rapporto di lavoro è disciplinato da una molteplicità di fonti: legge, contratti collettivi e contratto individuale.
Quando una fonte è gerarchicamente sovraordinata rispetto a un’altra, la regola è nel senso che la fonte inferiore (il contratto individuale rispetto al CCNL, il CCNL rispetto alla legge) possa derogare a quella superiore in senso più favorevole ai lavoratori (cosiddetta derogabilità in melius) e mai in senso a essi sfavorevole (inderogabilità in peius).
Il CCNL non ha mai efficacia abrogativa nei confronti delle leggi ordinarie, tranne il caso (verificatosi una sola volta in Italia) di recepimento delle disposizioni del contratto in un atto avente forza di legge.
Come è tipico del diritto privato, la legge ordinaria può stabilire che si applichi in via residuale, salvo diverso accordo tra le parti contraenti.
Se tra le fonti non sussiste un rapporto di gerarchia (ad es. rapporto tra contratti collettivi, anche di diverso livello), il contrasto si risolve secondo il criterio della successione temporale, in quanto un contratto collettivo successivo può sicuramente derogare, anche in senso peggiorativo, rispetto alla disciplina collettiva previgente.
La giurisprudenza ha più volte sottolineato che non esiste un diritto alla stabilità nel tempo di una disciplina prevista dal contratto collettivo, per il quale il successivo CCNL può liberamente incidere anche su situazioni in via di consolidamento, con l’unico limite dei diritti acquisiti.
I rapporti tra le fonti del rapporto si regolano come segue:
 
 
Rapporto tra CCNL e legge
Il rapporto è gerarchico, per il quale il CCNL può derogare in senso migliorativo per i prestatori.
Ci sono casi, espressamente previsti ex lege, nei quali la stessa legge autorizza la contrattazione collettiva a introdurre deroghe peggiorative rispetto alla disciplina legale (si segnala, tra le altre, la l. 223/91, che consente alla contrattazione collettiva, nei casi di gravi crisi aziendali, di superare il divieto di demansionamento previsto dall’articolo 2103 del codice civile come alternativa ai licenziamenti collettivi)
   
Rapporto tra CCNL dello stesso livello
Il rapporto è paritario, il contratto successivo può modificare quello precedente anche in senso peggiorativo, con il solo limite dei diritti quesiti (definitivamente acquisiti al patrimonio dei lavoratori).
Di solito viene modificata la parte oggetto delle piattaforme rivendicative, lasciando per il resto inalterato il testo previgente.
   
Rapporto tra CCNL e contratto aziendale
Il rapporto è di specialità o “di prevalenza della fonte più vicina a rapporto da regolare”, per il quale il contratto aziendale può derogare a quello collettivo anche in senso sia peggiorativo che migliorativo per il lavoratore.
 
Esiste una gerarchia delle fonti del diritto sindacale, scritta e vigente negli ultimi trenta anni.
La gerarchia delle fonti del diritto prevede prevalenza, complementarità (e non alternatività o derogabilità) della fonte superiore, in ordine: leggi, CCNL nazionali, CCNL regionali, CCNL territoriali, CCNL aziendali.
La gerarchia si applica per le materie che sono competenza concorrente di due CCNL, oppure quando un CCNL si espone in violazione della gerarchia, su una materia che è competenza esclusiva di un CCNL di livello superiore.
Nulla vieta, nel permanere di una gerarchia delle fonti del diritto sindacale, che alcune materie siano identificate nel CCNL nazionale o direttamente dalla legge come competenza esclusiva del CCNL aziendale, eliminando alla base il contenzioso legale e l’arduo problema interpretativo delle molteplici fonti.
Le materie di contrattazione facilmente attribuibili come competenza esclusiva del CCNL aziendale sono svariate, tematiche e congedi per formazione professionale e riqualificazione dei lavoratori, diritto allo studio per studenti lavoratori universitari, ricerca e sviluppo/innovazione di prodotto e processo, rapporti coi fornitori/sindacati dell’indotto locale e del distretto, lavoro a domicilio, una tantum e premio di produzione, pari opportunità, inserimento di lavoratori disabili e categorie a svantaggio sociale, istituzioni interne a carattere sociale e volontariato, previdenza e assistenza sanitaria integrativa complementare di settore e aziendale, strumenti informatici e uso della connessione Internet, assunzione e periodo di prova, tipo di contratto, documenti/residenza/domicilio, apprendistato, mobilità, trasferta/distacco/trasferimento, appalti, passaggio temporaneo di mansioni/sostituzione di personale, cumulo di mansioni/attribuzione di nuove mansioni o qualifica anche a lavoratori inidonei, orario di lavoro (entrata/uscita in azienda, conto ore, interruzioni e sospensione, flessibilità in entrata e uscita/recuperi, ore/preavviso/maggiorazioni per reperibilità/lavoro eccedente/straordinario/festivo/notturno/secondo turno/pluriperiodale, fruizione delle ferie e del riposo settimanale), ferie (indennità sostitutiva di mancato godimento, preavviso, richiamo in servizio), mensa (orario e indennità), indennità per disagiata sede/cassa/maneggio denaro, elemento perequativo, indumenti di lavoro, certificato di lavoro e di formazione, obblighi aggiuntivi di informativa/consultazione/accordo sindacale, codice etico/certificazioni/policy interne.
 

L’identificazione del contratto collettivo applicabile
Dopo l’abrogazione del sistema corporativo, si ritiene che non sia più applicabile l’articolo 2070 del codice civile, norma che permetteva di individuare il CCNL applicabile facendo riferimento all’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore.
Un orientamento giurisprudenziale consolidato considera in primo luogo, ai fini dell’individuazione del contratto applicabile, la concreta volontà delle parti, espressa esplicitamente nel contratto individuale oppure desumibile dall’applicazione continuata e non contestata di un determinato CCNL.
Ci si rifà alla categoria economica nella quale svolge la sua attività l’azienda quando la retribuzione contrattuale risulti inadeguata, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione rispetto all’attività lavorativa prestata dal dipendente.
 
L’interpretazione
Come contratto di diritto comune, il CCNL deve essere interpretato secondo i criteri ermeneutici dettati dal codice civile agli articoli 1362 e seguenti del codice civile.
L’interprete deve quindi ricercare la “comune volontà delle parti”, in relazione all’elemento letterale delle clausole, al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del CCNL, al contesto contrattuale, interpretando le clausole del contratto le une per mezzo delle altre.
Si deve precisare  che, secondo la giurisprudenza, i contratti collettivi corporativi ancora in vigore conservano la loro originaria natura normativa e devono quindi essere interpretati secondo le specifiche disposizioni sull’interpretazione della legge (art. 12 prel. c.c.)
 
La certificazione
Il CCNL metalmeccanico 2012-2017 è stato il primo ad affidare a enti bilaterali di imprese e sindacati firmatari (D.lgs 276/2003 artt. 75 – 84) la certificazione dei contratti individuali e di quelli collettivi territoriali, introdotta dal Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
A una camera di privati rappresentanti di associazioni sindacali e di datori è attribuita la potestà (D.M. 14 giugno 2004) di una certificazione che ha forza pari a un atto amministrativo opponibile a terzi, pur non essendovi parte pubblici ufficiali, né un presidente terzo e imparziale rispetto alle parti firmatarie.
Può non essere rappresentato il lavoratore iscritto a un sindacato non firmatario di accordi.
 
Altri tipi di contratto
Nell’ordinamento italiano sono ancora presenti, accanto ai contratti collettivi di diritto comune, i contratti corporativi e i contratto collettivo aziendale di lavoro.
Sono ancora in vigore, anche se con una limitata rilevanza pratica, i CCNL recepiti in decreto ai sensi della legge Vigorelli del 1959, di cui già si è detto in precedenza.
Vigono anche i contratti collettivi corporativi, stipulati durante il ventennio fascista e aventi efficacia erga omnes in quanto fonti del diritto ai sensi dell’articolo 1, n. 3, delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942.
Questi CCNL, mantenuti in vita dal Decreto Legislativo 23 novembre 1944, n. 369 nonostante l’abrogazione del sistema corporativo, non hanno più alcuna applicazione, perché sono stati superati dalla successiva contrattazione collettiva di diritto comune (che per la giurisprudenza ha integralmente sostituito la disciplina corporativa nonostante la diversità di fonte).

 

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