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Un presidio davanti alla sede della Regione Emilia Romagna a Bologna per mettere luce sopra il dramma sanitario che sta attanagliando ospedali e reparti emiliani. Parma è solo l’ultima città a denunciare l’erosione dei servizi ospedalieri, fino quasi al punto di rottura dato, non solo simbolicamente, dai pronto soccorso appaltati ai privati. La pandemia da Covid ha fatto emergere tante criticità in un sistema provato dai continui e ripetuti tagli. Per contro non ha ottenuto l’effetto auspicato da molti di portare al centro dell’agenda politica (con relativi stanziamenti di bilancio) le carenze che, in molti casi, sono già strutturali. 

La denuncia di Fp Cgil dell’Emilia Romagna mette nero su bianco che anche in una città nota per l’efficienza e la buona gestione dei servizi sanitari come Parma “c’è un problema di sottofinanziamento complessivo dal quale ne conseguono altri due: la carenza di personale e la scarsità dei fondi per la contrattazione integrativa”, spiega il segretario regionale con delega alla sanità, Marco Blanzieri, dalle pagine del Fatto quotidiano.

La denuncia: carenza di medici e straordinari non pagati

Medici in numero insufficente per coprire i turni, liste d’attesa di mesi per esami diagnostici anche urgenti, reparti delicatissimi come i pronto soccorso che escono dalla sfera del pubblico per venire appaltati ai privati, danno la misura di un dramma generalizzato. Nella città emiliana i rappresentanti dei lavoratori hanno dichiarato lo stato di agitazione lo scorso 28 maggio, per denunciare il grave rischio nel quale versa la sanità regionale. Per rimettere mano al trattamento dei dipendenti sono necessari 5 milioni di euro, così come quantificati durante un incontro con i vertici dell’Azienda ospedaliera, che vanno ad aggiungersi ai 3 milioni necessari all’Azienda dell’Unità sanitaria locale (Ausl).

Soldi che “non ci sono” perché “solo la retribuzione base viene messa a bilancio” e il resto sta nel cassetto (vuoto) dei fondi contrattuali. Straordinari non pagati e premio di produttività evaporato è lo stato dell’arte, circostanza che applicata a una carenza gravissima di medici (molti dei quali andati via perché arrivati a scadenza senza rinnovo del tempo determinato ndr), infermieri ma anche Oss significa superlavoro non retribuito. Buchi nell’organico “dovuti a scelte politiche fatte 10-15 anni fa”, dice Blanzeri, che portano ad altre mancanze e che mettono le strutture nella condizione di dover chiudere servizi o, in alternativa, esternalizzare interi reparti. Qualcuno ha anche coniato una nuova categoria professionale, quella dei “medici in affitto”.

Pronto soccorso e reparti gestiti da “medici in affitto”

Emergenza è la parola d’ordine. Al Cardarelli di Napoli così come al San Camillo di Roma o al San Martino di Oristano la solfa è sempre la stessa: mancano i medici di medicina d’urgenza, gli infermieri e ovunque – compresa la Lombardia dove l’assessora al Welfare, Letizia Moratti, ha assicurato che però solo le “piccole strutture periferiche” sono in sofferenza – si cercano soluzioni, il più delle volte temporanee e sempre più spesso esterne.

Il pronto soccorso dell’Ausl di Reggio Emilia e il punto nascite di Mirandola sono andati in appalto a cooperative private, così come il reparto d’urgenza di Oristano e seguiranno a breve altri 12 ospedali della Sardegna. Il Veneto non è da meno90-110 euro all’ora per medici liberi professionisti al soldo dei privati (già presenti in 18 strutture) che possono assumere anche specializzandi al primo anno, quando non neolaureati, cosa che ha innescato feroci polemiche e contrasti feroci intorno alla questione. I contratti applicati sono per liberi professionisti con maggiore flessibilità per turni, notturini e festivi. Il costo grava comunque sul Ssn e l’onerosità del servizio è destinata a crescere.

All’Ulss 2 di Treviso viene appaltato all’esterno parte del servizio di guardia medica e pronto soccorso, “con un costo esorbitante di 1.000 euro a turno“, denuncia la consigliera regionale del Pd Anna Maria Bigoni. “Si tratta di una deriva inaccettabile, causata dall’ostinazione della Giunta regionale nel non voler adeguare le retribuzioni del personale sanitario”, sostiene. L’assessora Manuela Lanzarin per tutta risposta non vede altre soluzioni: “Sul fronte del Sistema di emergenza-urgenza è prevista la proroga fino al 31 gennaio 2024 di contratti a tempo determinato, di rapporti in convenzione o di altre forme di lavoro flessibile”. Accesso libero ai privati dunque.

Le Regioni “costrette ad appaltare”

“I concorsi per le sedi carenti vanno deserti e noi siamo obbligati a chiedere aiuto all’esterno”, è la giustificazione che si danno colleghi assessori quali Raffaele Donini (Emilia-Romagna) o Mario Nieddu (Sardegna). In entrambi i casi trattasi di “scelta obbligata”. E l’alternativa, dicono, sarebbe chiudere pronto soccorso e reparti non coperti.

Andando a vedere i numeri, ciò che emerge è che siamo davanti alla “cronaca di una morte annunciata” della Sanità pubblica perché è dagli anni 2000 che si procede a tagli continui su ospedali, posti letto e lavoratori.

Venti anni di tagli: 80 mila posti letto in meno

Dal 2007 al 2019, stando a quanto si legge negli Annuari del Ssn del Ministero della Salute, si registra una perdita del 27% dei posti letto (da 259.476 a 190 mila). Numeri che appaiono più macroscopici se confrontati con quelli del 2000, quando si contavano 272 mila posti letto, ben 80 mila in più rispetto al 2019.

Anche il personale sanitario è diminuito progressivamente grazie al blocco del turn over: 106,8 mila medici e 264,1 mila infermieri erano nel 2007 (senza contare il personale dei ruoli amministrativo e tecnico) per diventare nel 2019 ben 102,3 mila unità (4.500 in meno) i camici bianchi e 256,4 mila i secondi, con una perdita di 7.700 unità 12 anni dopo, nel 2019. 

Dando uno sguardo al numero degli ospedali poi, emerge un dato ancora più impressionante: nel 2007 erano 1.197 le strutture attive mentre 12 anni dopo erano diventate 992, ben 205 in meno. Il dato del 2019 confrontato con quello del 2000 fa drizzare i capelli: ne mancano oltre 300, se è vero, come scrive il ministero, che all’epoca si viaggiava intorno alle 1.321 strutture. 

Speranza: nuovi stanziamenti dal Pnrr

Insomma, una situazione di caos che incredibilmente non è stata prevista e che adesso si cercherà di “tamponare” con i soldi del Pnrr. Il Dm 71 è la soluzione a lungo termine messa in campo dal governo, cosa non facile perché presuppone una riforma. Il ministro Speranza dice che avremo ancora “qualche anno difficile da gestire, ma abbiamo iniziato la stagione investimenti“. Per il titolare della Sanità “dobbiamo invertire la stagione dei tagli e investire sulla sanità nel suo complesso e, in modo particolare, sul personale sanitario. Abbiamo già iniziato a farlo”, afferma aggiungendo che “il Fondo sanitario è a 124 mld cui si aggiungono 20 mld del Pnrr. Inoltre – precisa il ministro – per la prima volta c’è un Piano europeo Pon per la Salute”. 

 

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