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L’art. 1754 c.c. definisce “mediatore” colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.

Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.

Come si configura il nesso causale tra attività intermediatrice e conclusione dell’affare?

A questa domanda risponde la Corte di Cassazione, Sez. II Civile, con l’ordinanza 3 settembre 2018, n. 21559.

La vicenda

Un’agenzia immobiliare e la proprietaria di un immobile concludevano un contratto di mediazione attraverso il quale si conferiva l’incarico alla prima di vendere il predetto bene.

Le parti inserivano nel contratto diverse condizioni tra le quali il prezzo di vendita e la corresponsione della provvigione in favore dell’agenzia al momento della stipula del preliminare.

Individuata una possibile acquirente, quest’ultima formulava una proposta di acquisto che veniva accettata dalla proprietaria.

Giunti così al momento della stipula del preliminare di vendita, la promissaria venditrice si rifiutava di sottoscriverlo.

A seguito dei predetti fatti, l’agenzia immobiliare conveniva in giudizio la proprietaria al fine di ottenere la provvigione per l’attività di intermediazione espletata.

Parte attrice esponeva che il rifiuto di sottoscrivere il preliminare di vendita non le aveva permesso di percepire il proprio compenso, avendo dovuto restituire la quota di provvigione erogata dalla proponente e non avendo mai ottenuto quella a carico della conferente.

L’azione giudiziaria era dunque volta ad ottenere la condanna della convenuta al pagamento dell’intera somma pattuita a titolo di provvigione.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea, limitando però il pagamento della provvigione alla sola quota prevista per la promissaria venditrice.

La convenuta soccombente impugnava la sentenza di primo grado sostenendo che, a fronte della mancata conclusione dell’affare, nulla si sarebbe potuto pretendere.

Nello specifico si sosteneva che la proposta di acquisto, benché accettata, avesse un prezzo di vendita inferiore rispetto a quello previsto dal contratto di mediazione. Siffatta divergenza aveva indotto la conferente a non sottoscrivere il preliminare di vendita, non potendo così ritenersi concluso l’affare e non dovendo riconoscere alcuna provvigione in favore dell’agenzia.

Parte appellata si costituiva così in giudizio chiedendo il rigetto della domanda.

In particolare si riteneva che la provvigione dovesse legittimamente essere riconosciuta a seguito dell’accettazione della proposta di acquisto e dell’invito da parte della promissaria venditrice nella propria abitazione per la sottoscrizione del preliminare.

Il giudice di secondo grado accoglieva l’appello, disattendendo le doglienze dell’agenzia e condannando quest’ultima al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

Parte appellata proponeva ricorso in Cassazione avverso suddetta sentenza.

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La decisione dei giudici di Appello

Prima di esaminare la decisione assunta dal Supremo Consesso, appare utile e propedeutico ai fini della trattazione esplicitare meglio il percorso logico-giuridico seguito dai giudici di secondo grado così da poter evidenziare più facilmente le criticità sottese alla pronuncia.

Come anticipato, i giudici di secondo grado accolgono l’appello principale, riformando la sentenza di primo grado ed escludendo così il riconoscimento della provvigione in capo all’agenzia immobiliare.

Si perviene ad una tale decisione facendo leva sulla differenza tra il prezzo di vendita concordato al momento dell’incarico e quello offerto con la proposta di acquisto.

Secondo i giudici di appello, la non conformità così emersa deve prevalere sull’accettazione della proposta di acquisto da parte della conferente.

Proseguendo con il ragionamento, la differenza di prezzo di vendita deve indurre a qualificare l’accettazione stessa quale nuova proposta.

L’art. 7 delle condizioni generali del contratto di mediazione prevede il pagamento di una penale a carico della promissaria venditrice qualora, tra le varie ipotesi, quest’ultima si fosse rifiutata di accettare una proposta di acquisto conforme all’incarico.

La non conformità rilevata nel caso di specie esclude così sia il riconoscimento della provvigione, sia l’applicazione della penale contrattualmente prevista.

La decisione della Corte di Cassazione

I giudici di legittimità con l’ordinanza in commento n. 21559 del 2018, accolgono il ricorso principale, richiamando e confermando il prevalente orientamento giurisprudenziale affermatosi in materia.

Il diritto alla provvigione sorge ogni qualvolta vi sia un rapporto causale tra l’attività di intermediazione e la conclusione dell’affare.

Non è necessario che il nesso eziologico sia immediato e diretto ma è sufficiente che il mediatore abbia messo in relazione le parti in modo da costituire l’antecedente indispensabile per la conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata (ex multis Cass. 25851/2014).

Per “mediazione” si deve intendere l’attività di colui che avvicina le parti interessate alla conclusione di un affare, offrendo loro la possibilità di relazionarsi (Cass. 1915/2015).

Il mediatore costituisce il punto di contatto fra i futuri contraenti e, qualora la conclusione del contratto sia preceduta da una trattativa, non è richiesto un suo intervento in ogni singola fase.

Il diritto alla provvigione sorge con la conclusione dell’affare, quest’ultimo da intendersi quale operazione economica e fonte di un rapporto obbligatorio tra le parti (Cass. 8676/2009).

Rapportando quanto sinora esposto al caso di specie, l’affare deve considerarsi concluso con l’accettazione della proposta di acquisto poiché è con tale negozio giuridico che la promissaria venditrice ha assunto l’obbligo di stipulare il preliminare di vendita.

Negli ultimi anni si è valorizzata sempre più la libertà negoziale e la formazione progressiva del contratto e, dunque, la possibilità di porre in essere dei negozi giuridici diversi ed ulteriori dal tradizionale binomio “preliminare-definitivo”.

Quanto appena sostenuto permette di cogliere perché i giudici di legittimità richiamino la nota sentenza delle Sezioni Unite, n. 4628 del 2015, relativamente al “preliminare di preliminare”.

Valorizzando l’autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c., le future parti contrattuali possono decidere di stipulare un accordo antecedente al preliminare.

È compito del giudice di merito verificare se tale accordo possa essere qualificato quale vero e proprio contratto preliminare, produttivo di effetti ex artt. 1351 e 2932 c.c., oppure quale negozio ad effetti obbligatori con esclusione, in quest’ultimo caso, dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.

Un accordo può essere qualificato come preliminare di preliminare qualora le parti assumano l’obbligo di stipulare un successivo preliminare, sussistendo un concreto interesse alla formazione progressiva del contratto e verificando che i contenuti negoziali siano differenti e distinti tra loro.

La Corte di Cassazione evidenzia come la pronuncia della Corte d’Appello si ponga in contrasto con quanto previsto dall’art. 1755 c.c. nella parte in cui statuisce che la non conformità della proposta di acquisto rispetto al contratto di mediazione giustifichi la mancata stipula del preliminare, nonostante la stessa proposta fosse stata accettata.

È proprio l’accettazione della proposta ad essere produttiva di effetti giuridici obbligatori e, nello specifico, ad aver fatto sorgere l’obbligo della proprietaria di stipulare il preliminare.

Emerge una vera e propria contraddizione nell’affermare che il diritto alla provvigione sarebbe dovuto se la proposta fosse stata conforme all’incarico, prescindendo così dal preliminare e, successivamente, statuendo che la differenza di prezzo prevista nei due atti, renderebbe l’accettazione non conforme alla proposta e dunque qualificabile quale nuova proposta.

A fronte di quanto sinora esposto, i giudici di legittimità accolgono il primo motivo di ricorso e annullano la sentenza, disponendo il rinvio ad altra sezione della Corte di Appello per la decisione nel merito e sulla liquidazione delle spese processuali.

(Altalex, 25 ottobre 2018. Nota di Enrico Pattumelli)

 

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