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Il cambio di destinazione d’uso comportante il passaggio tra categorie funzionali disomogenee (da commerciale a residenziale) con opere è soggetto al permesso di costruire, senza opere oggi basta invece una SCIA in virtù delle modifiche del Decreto Salva Casa, ma occhio alle specifiche condizioni eventualmente fissate da strumenti urbanistici comunali

Per un cambio di destinazione d’uso da commerciale a residenziale con opere di redistribuzione interna serve il permesso di costruire.

Lo ha affermato il Tar Salerno con la sentenza 1198/2024 del 3 giugno, che ovviamente è applicabile al caso specifico anche se il Decreto Salva Casa, in materia, ha cambiato le carte in tavola anche se solo per i cambi d’uso – anche tra categorie non omogenee – ma senza opere.

Questo però è un caso particolare, un cambio d’uso con opere di redistribuzione interna senza aumento (apparente) di volumetria, che potrebbe – se proiettato alle norme odierne – necessitare di un supplemento di indagine, sempre considerando che poi bisogna rispettare le norme del PUT locale.

 

Il caso

Si tratta della trasformazione in complesso residenziale di un capannone dismesso, adibito ad allevamento intensivo, a parità di volumetria esistente.

Nel caso, era stato negato un permesso di costruire in base al rilievo che l’intervento progettato, siccome implicante un mutamento di destinazione d’uso (da commerciale a residenziale) urbanisticamente rilevante e integrante, quindi, gli estremi della ristrutturazione edilizia, confliggeva col divieto per esso sancito dalle NTA del PUT locale.

 

Cambio destinazione d’uso con opere: serve il permesso di costruire

Per assentire un cambio di destinazione d’uso con opere, tra categorie eterogenee, è necessario il permesso di costruire, mentre il Decreto Salva Casa lo consente con la SCIA per i cambi d’uso senza opere

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Cambio d’uso urbanisticamente rilevante

Secondo il TAR, il cambio di destinazione d’uso progettato è da considerarsi, di per sé, urbanisticamente rilevante, in quanto comportante il passaggio tra categorie funzionali disomogenee (da commerciale a residenziale) ai sensi dell’art. 23, comma 1, del dpr 380/2001.

Si tratta, cioè, di un intervento che, per le relative implicazioni di trasformazione del territorio sotto il profilo del carico urbanistico, è qualificabile come ristrutturazione edilizia ex art. 3, comma 1, lett. d, del dpr 380/2001 (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 2487/2022), tant’è che l’interessato, ai fini della relativa legittimazione, ha presentato apposita istanza di permesso di costruire.

Le regole precedenti all’avvento del Decreto Salva Casa prevedevano infatti che, come ricordato in una sentenza del Consiglio di Stato, «il presupposto del mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante ai fini dell’eventuale adozione della sanzione è che l’uso diverso, anche senza opere a ciò preordinate, comporti un maggior peso urbanistico effettivamente incidente sul tessuto urbano».

Nella caso specifico, non solo il ricorrente non ha dimostrato che la divisata trasformazione (con opere di redistribuzione interna) di un capannone commerciale dismesso in complesso residenziale non comportasse alcun aggravio del carico urbanistico, ma è, anzi, agevole inferire il contrario, sulla scorta dei dati di comune esperienza, e cioè che il previsto insediamento abitativo implichi un traffico di persone superiore e la necessità di servizi tipologicamente e qualitativamente diversi rispetto a quelli corrispondenti alla pregressa attività commerciale di allevamento intensivo.

Un simile intervento non avrebbe potuto non infrangersi contro il divieto di attività edilizie diverse dalla manutenzione ordinaria e straordinaria, dal restauro conservativo, dalla demolizione delle superfetazioni e dall’adeguamento funzionale una tantum, sancito dall’art. 17 delle NTA del PUT.

Quel che ci interessa è che ‘prima’ dell’avvento del Salva Casa anche per i cambi d’uso senza opere tra categorie disomogenee serviva il permesso di costruire

Ma oggi?

 

Cambio destinazione d’uso: le regole del Decreto Salva Casa

Nello specifico, in virtù di quanto disposto l’art.1 lettera c.1 del DL 69/2024, è sempre possibile il cambio di destinazione d’uso senza opere, all’interno della stessa categoria funzionale (es. residenziale, agricola, industriale), nel rispetto delle normative di settore (es. vincoli culturali e paesaggistici) e delle specifiche condizioni eventualmente fissate da strumenti urbanistici comunali.

Inoltre, è sempre possibile il cambio destinazione d’uso tra diverse categorie funzionali, nel rispetto delle normative di settore e delle specifiche condizioni eventualmente fissate da strumenti urbanistici comunali, all’interno delle zone centro storico, residenziali consolidate (totalmente o parzialmente edificate) e residenziali in espansione (destinate a nuovi complessi insediativi):

  • limitatamente alle categorie residenziale, turistico-ricettiva, produtiva e direzionale e commerciale;
  • nel rispetto del principio dell’indifferenza funzionale tra destinazioni d’uso omogenee (il mutamento è finalizzato alla forma di utilizzo prevalente delle altre unità immobiliari presenti nell’immobile).

Il cambio destinazione d’uso per i casi sopracitati si effettuerà con la SCIA, “ferme restando le leggi regionali più favorevoli“.

 

Occhio alle regole degli strumenti urbanistici comunali

Quindi attenzione: la liberalizzazione del DL Salva Casa esiste ma bisogna tenere presente delle “specifiche condizioni eventualmente fissate da strumenti urbanistici comunali“, come effettivamente succede nel caso appena esaminato.

 

Cambio destinazione d’uso liberalizzato: quando non è consentito

Infine, non rientrano nel regime del cambio destinazione d’uso ‘liberalizzato’ i cambi destinazione d’uso con opere e quelli relativi ad unità immobiliari poste al primo piano fuori terra.

 

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